Quei grandi rifiuti

  

Pubblicare un libro è sempre più facile, da quando Internet è diventato un canale di comunicazione mondiale e per i milioni di scriventi si sono moltiplicate le occasioni e le possibilità di apparire. In Italia diminuiscono ogni anno i lettori e soprattutto i libri acquistati, sia per la crisi economica sia per la crescita degli e-book, dei libri elettronici, mentre è possibile scaricare on line tutte le storie che ciascuno ha in mente.

Questa rivoluzione che in poco più di un decennio ha trasformato il mercato del libro ha indotto Gian Carlo Ferretti a ripercorrere la storia di questo fenomeno partendo dal secolo precedente in un documentato saggio dal titolo «Siamo spiacenti. Controstoria dell’editoria italiana attraverso i rifiuti» (Bruno Mondadori, pp. 233, euro 20).

Ferretti disegna la storia dei rifiuti editoriali in Italia dagli anni Venti a oggi, un argomento che era già stato affrontato da Mario Baudino in un utile saggio dal titolo «Il gran rifiuto. Storie di autori e di libri rifiutati dagli editori» (1991), edito da Longanesi e riproposto da Passigli nel 2009. L’analisi di Baudino, organizzata in centinaia di schede, riguardava anche gli autori stranieri, molti dei quali avevano scritto capolavori della letteratura rifiutati dall’editore. Basti citare i casi eclatanti di Proust, che pubblica il primo volume della «Recherche» a proprie spese da Grasset, prima di approdare a Gallimard, così come avevano fatto Svevo con i primi due romanzi e farà poi Moravia con «Gli indifferenti», e di Joyce, che pubblica l’«Ulisse» a Parigi da Sylvia Plath dopo i rifiuti inglesi, tra i quali la Hogarth Press di Virginia Woolf.

Il rifiuto può essere un insegnamento utile per un autore, in quanto lo aiuta a migliorarsi, e spesso si trasforma in accettazione da parte di un altro editore. Uno dei racconti più belli del Novecento, «Casa d’altri» di D’Arzo, uscirà da Sansoni dopo essere stato rifiutato da Vallecchi e da Einaudi, per il giudizio tranchant di Pavese, che in una scheda di lettura annota: «Non m’interessa affatto. A morte», e qualche anno prima aveva bocciato «Se questo è un uomo» di Primo Levi, pubblicato nel 1947 da De Silva in 2.500 copie e ripreso da Einaudi solo nel 1958.

Sono molti i rifiuti che Calvino e Vittorini si palleggiano nella collana einaudiana dei «Gettoni»: ne fanno le spese Fenoglio, Cassola e Arbasino. Calvino è particolarmente severo quando dirige la collana dei «Coralli», rifiutando romanzi importanti come «Il ponte della Ghisolfa» di Testori, che uscirà da Feltrinelli, «Memoriale» di Volponi, pubblicato da Garzanti, e «La compromissione» di Pomilio, edito poi da Vallecchi.

A questo punto, se facciamo i confronti con la situazione attuale, e immaginiamo gli editor delle case editrici importanti selezionare i testi con il metro usato da Pavese, Vittorini e Calvino, verrebbe da pensare che quasi nessun romanzo italiano, uscito negli ultimi vent’anni, sarebbe stato pubblicato. Non è strano che Pasolini sia stato rifiutato da Mondadori prima di essere edito da Garzanti, per «il prudenzialismo e moralismo di Arnoldo verso un autore troppo innovativo, provocatorio e scandaloso». E la stessa cosa si può dire per il «Pasticciaccio» di Gadda, che forse chiedeva troppi soldi, e uscì poi da Garzanti.

Talvolta il rifiuto è motivato da inimicizie e rancori personali. «Il padrone» di Parise venne rifiutato da Garzanti per la rappresentazione ironica e grottesca dello stesso editore, prima di uscire da Feltrinelli, e «La vita agra» di Bianciardi fu rifiutato da Feltrinelli per gli attacchi rivolti all’editore in un libro precedente dell’autore grossetano, prima di venir pubblicato da Rizzoli. «Tamburo di latta» di Gunther Grass, stampato in 5 mila copie senza che l’editore Bompiani l’avesse mai letto, viene mandato al macero in quanto scandaloso per le descrizioni sessuali e blasfemo nei confronti della religione, e pubblicato da Feltrinelli con grande successo.

Talvolta il rifiuto diventa un risvolto promozionale se l’autore muore e apre la strada a un grande successo postumo. Tre casi emblematici sono quelli di Tomasi di Lampedusa, di Morselli e di Satta. «Il Gattopardo», rifiutato da Mondadori e da Einaudi, viene pubblicato da Feltrinelli nel 1958, un anno dopo la morte dell’autore. Morselli, dopo aver collezionato una lunga serie di rifiuti editoriali da Einaudi, Rizzoli, Mondadori e Garzanti, si suicida nel 1973 e l’anno successivo Adelphi inizia con «Roma senza papa» la pubblicazione di tutti i suoi romanzi. Satta, giurista sardo, muore nel 1975 e il suo capolavoro «Il giorno del giudizio» esce nel ’79 da Adelphi vendendo oltre 60 mila copie.

Camilleri scrive il suo primo romanzo, «Il corso delle cose», nel 1968, rifiutato da molti grandi editori, tra cui Mondadori, Garzanti, Bompiani, Feltrinelli, e pubblicato dieci anni dopo da un piccolo editore toscano, Lalli. Esce un secondo romanzo da Garzanti nel 1980, «Un filo di fumo», senza alcun successo, e solo nel 1994, grazie all’editore Sellerio, inizia la sua affermazione con «La forma dell’acqua» e l’invenzione del commissario Montalbano.

Con la fine degli anni Settanta, come scrive Ferretti, si attua il «passaggio da un’editoria di letterati-editori a un’editoria di funzionari-manager», dove prevalgono le ragioni del profitto e del mercato su quelle della qualità e della scrittura. E’ l’inizio di un fenomeno che esplode negli ultimi vent’anni, con il diluvio straripante delle pubblicazioni (oltre 60 mila titoli all’anno), l’incremento degli esordienti, l’abbassamento qualitativo degli autori e dei testi, dove la figura dello scrittore inedito rifiutato tende a scomparire.

Tutti, travolti dal sacro furore dello scrivere, purtroppo non del leggere, possono diventare visibili, anche se solo per un lampo fulmineo, in Rete o su carta, prima dell’abbandono e dell’oblio.

Massimo Romano

 



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