La Grande Guerra in diciannove vite

 

Libri sulla Grande Guerra ne sono stati scritti e pubblicati migliaia e migliaia, in tutte le  lingue. In cinque anni di battaglie in tre Continenti (Europa, Asia, Africa) sono morti venti milioni di uomini, altrettanti sono rimasti feriti. Molti fra i sopravvissuti hanno raccontato in vari modi la loro esperienza; gli archivi storici sono pieni di diari, di lettere ai famigliari, di memorie rievocate anni dopo la fine di quel conflitto.

Naturalmente ogni Paese che vi ha partecipato ha reso quella terribile tragedia materia di studio nelle sue scuole e nelle sue università, le vittorie e le sconfitte, gli eroi e i disertori, le gioie e i dolori. Verdun e Caporetto, Ypres e la Somme, l’Isonzo e il Dnestr, ma anche Salonicco e Gallipoli e Gaza devastate dalle bombe, e San Pietroburgo dove comincia la rivoluzione rossa in un albergo di sosta per ufficiali reduci dal fronte.

Ma vale davvero la pena di leggere un libro nuovo, già tradotto in quattordici lingue, uscito in Italia la primavera scorsa, dal titolo “La bellezza e l’orrore” (Einaudi, 390 pagine, 24 euro). Il suo autore, storico e giornalista, è svedese, si chiama Peter Englund, ha 55 anni, è stato corrispondente di guerra ed è dal 2009 segretario dell’Accademia di Svezia che assegna il Premio Nobel per la letteratura.

Il suo libro raccoglie le storie della Grande Guerra vissute da diciannove protagonisti, fra i quali tre donne (una di loro é una giovanissima studentessa tedesca, che visse il conflitto di riflesso alle vicende vissute da suoi amici e parenti). Ci sono altri tre tedeschi e due francesi, tre inglesi, due austro-ungheresi, due russi, un danese, un australiano, un sudamericano, un nordamericano, un neozelandese, e infine due italiani: Paolo Monelli, che diventerà un grande giornalista ma allora era un alpino (finì la guerra prigioniero in Austria dopo un aspro assedio del nemico, sostenuto fino all’ultimo proiettile con coraggio sul monte Castelgomberto) e Vincenzo D’Aquila, figlio di una famiglia emigrata negli Stati Uniti.

Monelli non è la sola figura destinata a diventare famosa: dall’altra parte c’é Robert Musil, ufficiale dell’esercito imperiale austriaco che la guerra la vive di straforo, come funzionario addetto alla stampa di giornali per militari, poi si ammala, poi guarisce, mentre si prepara a scrivere, con i suoi appunti quotidiani talvolta semplicemente deliziosi, un capolavoro come “L’uomo senza qualità” di tanti anni dopo.

La Grande Guerra viene raccontata divisa in cinque capitoli, uno per anno dal 1914 al 1918, attraverso brani di scritti occasionali dei diciannove testimoni-protagonisti, due dei quali moriranno in combattimento, due finiranno prigionieri, uno impazzirà; ogni citazione individuale è preceduta e seguita da brevi descrizioni del tempo, del luogo, dello stato del conflitto per ciascuno di loro. Uno dei pregi del libro è che fa gettare lo sguardo del lettore di quasi cent’anni dopo su fronti molto lontani l’uno dall’altro: quello occidentale e quello orientale in Europa, molto conosciuti; ma anche quello in Africa orientale fra i dominii inglese e francese da un lato e tedesco dall’altro; quello in Persia e quello in Medio Oriente, entrambi tra franco-inglesi e turchi ottomani alleati della Germania; quello nell’Atlantico, dove la flotta britannica è oggetto delle imprese dei sottomarini tedeschi; e infine i vari fronti interni, a Parigi (dove si cerca di continuare a vivere come sempre, pur parlando sempre di guerra) come a Londra come a San Pietroburgo.

Quello che colpisce è che non ci si stanca mai di leggere perché ogni paragrafo, ogni data, ogni personaggio che racconta non forniscono solo particolari del conflitto, spesso ignorati, ma sensazioni, sentimenti, giudizi che la storia classica non annota quasi mai; e il bilancio della lettura ogni lettore se lo fa da sé, secondo la propria mentalità, la propria cultura, la propria sensibilità umana.

Ciascuno si sente, ad esempio, tentato di cercare una risposta al titolo in apparenza contraddittorio del libro, “La bellezza e l’orrore”. Noi abbiamo trovato la bellezza a pagina 400, dove si legge come si comporta un ufficiale di cavalleria dell’esercito ottomano, un sudamericano di 35 anni, Rafael De Nogales, che assiste a un bombardamento aereo su Gaza da parte di alcuni biplani inglesi, uno dei quali è colpito dalla contraerea turca.

Egli sa che cosa tocchi in genere ai piloti di         quegli aerei, una volta caduti a terra: vengono mutilati e derubati di tutto quello che hanno addosso dalle truppe irregolari arabe. Englund scrive: “Dentro De Nogales scatta qualcosa. Forse è per via della bellezza del morto (che descriverà in una sua lettera “chiaro di capelli, tra il color cuoio  e il rosso, e ancora giovanissimo… A causa dell’impatto con il terreno da più di 1500 metri d’altezza, gli occhi azzurri o comunque chiari gli erano usciti dalle orbite”, ndr) o solo perché (come dice lui stesso)  prova rispetto per un nemico  così ammirevole e impavido, un ufficiale e un cristiano come lui, ma non si risolve a lasciare  il corpo in pasto ai cani del deserto. Sfoderando la rivoltella costringe un uomo a caricare il corpo sul suo dromedario e portarlo ad Abu Hureira. Lì De Nogales fa in modo che il pilota abbia degna sepoltura. Nella fretta non si trova una cassa, e così decide di avvolgerlo nel suo cappotto. Poi prende la piccola croce d’oro che porta al collo dall’infanzia e l’appunta, come una medaglia, al petto del morto”. Bellissimo, no?

Ed ecco l’orrore, a pagina 434, dove si legge questa impressione di Paolo Monelli davanti al tragico spettacolo dell’esecuzione sommaria di due alpini della sua stessa unità, impegnata sull’Ortigara nel luglio del 1917, giudicati colpevoli di diserzione: “Questioni, dubbi s’affacciano alla mente riluttante e li respingiamo con terrore perché contaminano troppo alti principi: quelli che accettiamo a occhi chiusi come una fede per timore di sentir fatto più duro il nostro dovere di soldati. Patria, necessità, disciplina – un articolo del codice, parole che non sapevamo cosa volessero davvero dire, solo un suono per noi, morte con la fucilazione, eccole chiare, comprensive, dinanzi allo sgagliardimento della nostra mente. Ma quei signori laggiù  a Enego, no, non sono venuti qui a veder riempirsi di polpa le parole della loro sentenza”. L’orrore perfetto, no?    

Beppe Del Colle



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