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Fiat resta in Italia. Ma come?
La Fiat resta in Italia, ma gli investimenti sono rinviati al 2014, quando è prevista la ripresa del mercato europeo dell’auto; di conseguenza ci saranno altri due anni di cassa integrazione o contratti di solidarietà (60 per cento del salario-base, senza le indennità); a Mirafiori significa toccare gli otto anni di cassa, un record assoluto nella storia della Fabbrica italiana automobili Torino, un onere pesante per i 5 mila dipendenti e per l’indotto. Ma l’incontro Monti-Marchionne non poteva produrre altri risultati, perché il governo “liberista” del professore è contrario a nuovi aiuti di Stato, gli azionisti (Famiglia Agnelli-Elkann) non sono disponibili a nuovi finanziamenti, il numero uno Marchionne non può rinunciare alla scelta strategica a favore di Obama-Detroit-Chrysler, da cui giungono gli utili del Gruppo. Mirafiori, che nel 2009 aveva prodotto 172 mila auto, quest’anno raggiungerà appena le 44 mila unità; l’anno prossimo, dopo il rinvio dei due Suv già previsti, produrrà soltanto 30 mila esemplari della Mito. E la situazione non è molto migliore negli altri stabilimenti (Cassino, Melfi, Pomigliano), mentre continua la protesta dei lavoratori di Termini Imerese per l’assenza di soluzioni alternative alla chiusura della fabbrica; sempre a Palazzo Chigi, durante l’incontro governo-Fiat, hanno manifestato i mille lavoratori della Irisbus-Fiat di Avellino, cui a dicembre scade la cassa per la chiusura dello stabilimento. I partiti di governo sono stati piuttosto freddi sull’intera vicenda, da Alfano a Casini passando per Bersani. Fatti e non parole, hanno chiesto i tre sindacati, scottati dai continui rinvii di Marchionne (solo per Mirafiori i piani sono già stati cambiati tre volte, nonostante le intese con gli enti locali). Ma ancora una volta gli attacchi più duri al vertice Fiat sono venuti da Cesare Romiti e dal patron di Tod’s Diego Della Valle, che hanno rincarato le contestazioni a Marchionne («incapace») e alla Famiglia («assente»). Uno scontro che non ha precedenti nella recente storia dell’imprenditoria italiana con risvolti anche nel delicato campo dell’editoria, alla vigilia di una decisiva elezione politica. Da alcune parti si chiede alla Fiat di lasciare il settore editoriale (10 per cento dal «Corriere della Sera», 100 per cento de «La Stampa») e di investire il ricavato nell’auto italiana. Ma tra gli industriali che intendono crescere nel «Corriere» c’è proprio Diego Della Valle (che già controlla il 10 per cento), mentre per il foglio torinese si parla di interessamento da parte del gruppo De Benedetti, di Caltagirone («Il Messaggero», «Il Mattino», «La Gazzetta del Mezzogiorno»…) e di un gruppo imprenditoriale subalpino vicino all’ing. Salza, presidente di Fideuram. La vicenda Fiat è dunque industriale, politica, editoriale, per la tradizione e le dimensioni del Gruppo Agnelli, che coinvolgono migliaia di azionisti, di lavoratori, tecnici, dirigenti. Ancora il «Corriere della Sera» (parte interessata) ha messo in evidenza la debolezza del governo sulla questione industriale, mentre gli ha riconosciuto grandi meriti a Bruxelles, Francoforte, Berlino, Washington, dove Obama ogni giorno elogia il prof. Monti. La questione è di una radicale scelta di politica economica: una linea “liberista” lascia le responsabilità degli investimenti (e del lavoro) agli azionisti, quella “colbertista” (Sarkozy-Renault) o “laburista” (Obama-Chrysler) immette finanziamenti pubblici (a proposito: dal 1977 al 2005 la Fiat dallo Stato ha ricevuto 7 miliardi di euro, poi c’è stato lo stop del governo Berlusconi-Bossi d’accordo con Marchionne; ma ora il numero uno del Lingotto, in polemica dura con il ministro Passera, ha rivendicato gli aiuti di Stato in Brasile e Serbia come giustificazione degli investimenti esteri). Per restare alla capitale (?) torinese dell’auto, la prospettiva di altri due anni di cassa integrazione è preoccupante non solo per Mirafiori (è invece positivo il confermato avvio della produzione Maserati alla Bertone, dove lavorano oltre mille persone). L’area subalpina deve interrogarsi seriamente sul suo futuro, come ha chiesto tempestivamente l’arcivescovo Nosiglia, senza strumentali allarmismi ma anche evitando la politica dello struzzo. In questo nuovo biennio di annunci e di stasi dell’auto, non è possibile restare in attesa dei nuovi progetti di Marchionne, perché la tensione sociale è alta tra disoccupati, cassintegrati, mobilità esterna. Distretto auto-motive (anche con gli stranieri), Tav, Università, Politecnico, Città della salute, nuove tecnologie: restano questioni decisive e urgenti. Mario Berardi
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