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Spendere poco oppure bene?Il governo Monti sarà ricordato, oltre che per avere impostato una politica di forte stretta fiscale per cercare di riequilibrare la finanza pubblica, creando una forte recessione; per avere ridato all’Italia un ruolo di dignità all’interno del contesto politico-economico europeo; per aver approvato una riforma del mercato del lavoro, in via di principio buona, ma assai debole sul piano della sua operatività, anche perché infarcita di principi già presenti in leggi precedenti e di fatto mai trasformati in operatività. Per i provvedimenti altisonanti nella loro etichettatura, dovuta allo stesso presidente del Consiglio (decreto «Salvaitalia», decreto «Risorgitalia», decreto «Crescitalia» et similia), ma anch’essi poco operativi, per il tentativo, forse più serio rispetto a quelli messi in atto dai governi precedenti, di cosiddetta spending review della spesa pubblica. Spending review su cui tutti concordano. Ma che cosa significa? Ovviamente la concordanza nei confronti di un concetto cresce con la vaghezza dello stesso: più un termine è vago nel suo significato maggiore è la concordanza nei confronti di esso, ché ognuno lo intende a modo suo e trova che anche molti altri ne condividono l’apprezzamento, pensando ad altri contenuti. Nello specifico, la spending review viene intesa, da alcuni, semplicemente come una drastica riduzione della spesa pubblica, che intanto è sempre inutile o dannosa (sic), non in modo (proporzionalmente o in valore assoluto) uguale per tutte le voci o tutti i settori, ma in modo più o meno differenziato, alla luce di valutazioni preconcette di bontà o non delle diverse categorie o settori di spesa. Per altri, la valutazione della bontà o meno delle diverse categorie di spesa discende dalla simpatia delle diverse categorie di spesa con modelli teorici preconcetti cui il valutatore s’ispira. Così la Commissione Giavazzi propone che vengano tagliati tutti i contributi alle imprese eccetto quelli in essere per cercare di ovviare a situazioni derivanti dalla presenza di stati di “fallimenti di mercato”, cioè di mercati impediti dal funzionare nel modo perfetto che i modelli economici neoclassici assumono per ipotesi, dimenticando peraltro che i mercati perfetti possono avere anche posizioni plurime di equilibrio, per cui la politica industriale dovrebbe per lo meno avere l’obbiettivo di facilitare il raggiungimento, fra le varie posizioni di equilibrio possibili, di quella socialmente migliore. Per altri ancora, che valutano la spesa pubblica quale atto potenzialmente positivo, ma non sempre effettivamente tale, il mantenimento o la riduzione (o anche l’aumento) di una certa spesa dev’essere valutata alla luce del fatto che questa spesa si sia dimostrata capace o no di avere un impatto netto positivo nella direzione desiderata, cioè di avere o di non avere raggiunto gli obbiettivi per i quali la spesa stessa era stata approntata. In altre parole, una certa legge (e quindi la spesa che ne è derivata) dev’essere valutata non tanto per verificare che sia stata attuata nei modi previsti, in tempi rapidi, senza sprechi e senza atti di corruzione o di concussione (cosiddetta “valutazione di processo”), ma per verificare se, oltre ai predetti requisiti, ha mostrato la capacità di raggiungere l’obbiettivo per il quale era stata deliberata. A questo punto, il problema si complica, poiché le analisi d’impatto netto di fatto non si possono effettuare a livello macroeconomico, bensì solamente a livello micro, di singolo programma, mentre la spending review viene fatta normalmente a livello di aggregati di spesa piuttosto ampi; inoltre le valutazioni d’impatto netto richiedono lunghi tempi di effettuazione, per cui sovente occorrerebbe averli avviati ben prima rispetto al momento in cui l’operazione di spending review richiede di potere disporre dei risultati della valutazione; poi gli obbiettivi degli stessi singoli programmi sovente non sono bene (o non lo sono per niente) indicati in modo esplicito, e valutare l’accostamento o no a un certo obbiettivo indicato in modo vago è cosa assai difficile a farsi; infine la pratica della valutazione d’impatto netto è poco diffusa ovunque, e molto poco diffusa nel nostro Paese, sia per la debolezza della domanda (poiché il farsi valutare incontra sempre ostacoli, se non altro di natura emotiva, mentre l’autovalutazione è un nonsenso logico) sia per inadeguatezza dell’offerta in senso qualitativo e in senso quantitativo (la debolezza della domanda non può che attivare poca offerta). Senza però questa valutazione d’impatto netto, la spending review non può prendere la via virtuosa nella direzione della qualità e si riduce ad una riduzione della spesa pubblica in senso meramente quantitativo e informata a preferenze preconcette. Serve assai poco, a parte il concorso al riequilibrio dei conti pubblici, ma con impatti sul sistema economico-sociale che possono essere assai più negativi rispetto agli eventuali effetti positivi derivanti dal predetto riequilibrio. Non aiuta a migliorare lo stato di criticità della spesa pubblica, che non sta nello spendere troppo, ma nello spendere male. Come si può scegliere, se non si è in grado (o se non si vuole) valutare l’impatto netto della spesa pubblica: quand’è che essa è buona e quand’è che essa è cattiva? Daniele Ciravegna
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