Un'odissea che andava raccontata

 

Eccolo lì, sul palco eretto nella piazza centrale di Pieve Santo Stefano, domenica 16 settembre, il vincitore della ventottesima edizione del Premio indetto dall’Archivio diaristico nazionale.

Si chiama Castrenze Chimento, è nato nel 1935 ad Alia, in provincia di Palermo; è correttamente vestito di scuro, con la cravatta, e porta gli occhiali, si direbbe un borghese meridionale in visita turistica nella Toscana aretina, sulle sponde del Tevere. E invece è un uomo che a 74 anni si è iscritto a una scuola media per adulti di Palermo per imparare a scrivere, poiché non ha fatto a tempo debito le elementari, e nei due anni successivi, il 2009 e il 2010, ha cercato di fare i conti con la propria giovinezza, raccontando tutto quello che aveva passato fra il 1940 e il 1956. Ne è venuta fuori una memoria (lunga una ventina di pagine dattiloscritte a cura dell’Archivio) in uno stile e un linguaggio talvolta asintattico e misto fra siciliano e italiano, qua e là confuso, con salti di ricordi avanti e indietro, ma sempre efficace, intitolata «L’odissea della mia vita».

Il suo manoscritto è stato inserito dalla commissione di lettura locale fra gli otto finalisti, e la giuria nazionale, dopo un contenuto dibattito, gli ha conferito il premio, che gli è stato consegnato dal sindaco di Pieve, Albano Bragagni. Quando l’annuncio è stato dato sul palco, Chimento è apparso molto emozionato, e a chi gli porgeva il microfono non ha detto altro che: «Grazie, vi voglio bene», ed ha invitato gli altri finalisti «a rimanere compatti».

Il richiamo omerico nel titolo della sua autobiografia non è immeritato, perché quella vita è un susseguirsi di eventi tristi, dolorosi, talvolta tragici, a cui il bambino, poi il ragazzo, poi il ventenne Castrenze ha tentato quasi sempre invano, fra rabbia e disillusione, di opporsi cercando giustizia dove non c’era che abuso, libertà dove non c’era che sfruttamento schiavistico, affetto dove non c’era che profondo disprezzo, tranquillità dove non c’era che litigio continuo, a cominciare fra i suoi genitori, dopo la morte in guerra del primogenito nel 1940: un uomo debole, povero e indeciso e una donna che, dopo avergli dato sei figli, lo ha lasciato per andare a convivere con uno più ricco di lui, un possidente del luogo.

Dei primi ricordi, Castrenze ha una memoria comunque lieta, come quello del giorno della prima comunione: «Vestito di bianco vedevo in una grande estensione di terreno una villa con i viali ricchi di fiore e di qualsiasi genere e colore. Tutto era bello e guardando ero felice». Durò poco, quell’estasi infantile.

Poco dopo cominciò per lui il lavoro, massacrante, «sotto padrone», come guardiano di polli, pecore, mucche, maiali, o come bracciante, man mano che cresceva negli anni. Pagato pochissimo, talvolta per giunta con denaro passato alla madre finché era minorenne; e quindi non indenne dalle tentazione di una microcriminalità dedita allo scasso notturno di negozi. Il tono generale del racconto è dettato dai sentimenti del dolore, della rabbia, dell’assoluta incertezza del futuro, con episodi raccapriccianti, come quando il padre, arrabbiato con lui «forse perché non lo avevo ubbidito nel comprargli un sigaro, si è infuriato e con tutta la sua forza mi ha preso per i capelli e mi ha trascinato per più di cento metri per le strade del paese mentre io urlavo dal dolore. Sembrava uno spettacolo! Pur ricordando queste cose tristi, ricordo per sfamarmi e dell’acqua per dissetarmi chiedeva l’elemosina per darmi da mangiare e queste son cose che non si possono dimenticare».

Episodi come questo ce ne sono molti, nel testo di Chimento: le notti senza sonno passate in qualche grotta o in qualche stalla, sulla paglia e senza le coperte, i lunghi cammini nei campi e nei boschi scalzo, alla guida degli animali, l’abbandono della madre. «Ricordo che un giorno, era pieno inverno e c’era vento e pioggia, guardavo le muccine (le mucche, ndr.) e le pecore e, poiché ero scalzo e bagniato, mi disperavo e bestemmiavo con tutta la mia forza contro Dio e i Santi: di aver superato i limiti. Mia madre e il suo uomo mi gridavano dal caseggiato che la sera sarei stato rivestito di botte. Io correvo, ma le mucche e le pecore correvano più di me, quindi non potevo addomesticarle e la sera sono stato aggredito da entrambi con pugni e calci nel sedere e in tutto il corpo».

Ma fu proprio in quella notte che, mentre era sveglio nel pagliaio, gli parve di vedere «in una luce bellissima», come racconta, il volto di Gesù che gli prometteva che gli sarebbe stato sempre al fianco e lo benediceva, «a una condizione, se tu mi prometti che da questa notte non bestemmierai più». Così smise di bestemmiare e trovò pure in un’esistenza fatta di fame e di miseria uno spiraglio di fede verso «il Signore Gesù Cristo», che sentiva amico. Il che non lo sottrasse, per alcuni anni ancora, a una convivenza con il male piuttosto che con il bene: per esempio, l’amicizia e quindi l’amore con una giovane prostituta.

Poi è venuta una progressiva liberazione, «la svolta nella mia vita», come la chiama lui. Ha lasciato Alia per Palermo, poi ha trovato lavoro a Milano e infine in Germania, non più come contadino, ma come operaio in una industria alimentare. Negli Anni ‘70 è tornato in Sicilia. Nel ’76 si è sposato, ma ha divorziato nel medesimo anno, e da trent’anni convive con un’altra donna. Sembra tranquillo e felice.

Quest’anno il premio è convissuto con la non voluta intromissione di una realtà particolare: quella della società siciliana dei primi anni del dopoguerra, vissuta e raccontata in altre memorie nel medesimo spirito di quella di Chimento, cioè attraverso la ribellione a un sistema di vita fondato sull’ingiustizia, sulla discriminazione dei poveri, sulla violenza soprattutto nei confronti delle donne e dei bambini. La prima conferma di questa immagine sociale è venuta dalla segnalazione, da parte della giuria, di un’altra autobiografia, quella di Lilly Sammartino, nata a Burgio (Agrigento) nel 1953. Un’altra vita caratterizzata nell’infanzia dalla povertà e dalla violenza in famiglia, con un padre di origine benestante ma condannato a 19 anni di carcere per un attentato politico, e latitante, che non è quasi mai presente in casa; e, una volta scontata la pena, arriva a tentare di uccidere la moglie, che non si riavrà mai più dal coma.

Lilly e le sue sorelle passano l’infanzia e l’adolescenza in istituti religiosi, ma lei comincia a lavorare a 14 anni; trasferitasi a Seregno, dove sperimenta sulla sua pelle la discriminazione antimeridionale, «comincia a studiare a ventitre anni», trova lavoro in un’industria, si innamora del proprietario, che però la tradisce prima del matrimonio; sposerà un altro uomo, da cui avrà tre bambini. «La vita non è stata facile nemmeno con lui, ma col carattere che ho, e con la fatica che non mi risparmio, sono riuscita a portare avanti il rapporto fino a oggi. Non ho mai raccontato ai miei figli della mia famiglia e del mio passato. Col silenzio ho voluto spezzare la catena di disgrazie che come una cappa aveva avvolto la mia famiglia d’origine».

Ma ecco che una sera, alla vigilia della premiazione, si rappresenta nel teatro comunale di Pieve un documentario cinematografico tratto dalla memoria di Vincenzo Rabito, siciliano di Chiaramonte Gulfi (provincia di Ragusa) lunga più di mille pagine dattiloscritte da lui su una vecchia Olivetti, con un punto e virgola dopo ogni parola, premiata nel 2000 e pubblicata nel 2007 in sintesi, ma nel pieno rispetto del suo linguaggio siculo-italiano, da Einaudi con il titolo «Terra matta» (lo stesso del filmato).

Il documentario, opera della giovane regista Costanza Quatriglio e prodotto dalla torinese Chiara Ottaviano come Cliomedia Officina con Cinecittà Luce, è semplicemente meraviglioso. La Sicilia del tempo della giovinezza e della maturità di Vincenzo Rabito (nato nel 1899, morto nel 1981, soldato nella Grande Guerra, emigrato in Paesi diversi, come la Germania, ma anche l’Etiopia del breve impero italiano) vi è illustrata con i suoi pregi e i suoi difetti, la sua gente e la sua violenza, sulla traccia del racconto autobiografico di un «ultimo», però cosciente di rappresentare in qualche modo il «Novecento italiano», e in particolare siciliano.

Infine, ma ne parliamo a parte, in queste pagine, è stato presentato alla Loggia del grano di Pieve Santo Stefano un libro edito da «il Mulino», intitolato «Povero, onesto e galantuomo», scritto da Antonio Sbirziola: un altro siciliano (nato nel 1942 a Butera, provincia di Caltanissetta) anche lui vincitore del Premio nel 2006.

Ma non tutta la ventottesima edizione del premio, la prima senza il fondatore dell’Archivio Saverio Tutino, morto a 88 anni lo scorso novembre e ricordato da tutti i presenti con grande rimpianto e malinconia, ha parlato in siciliano. Il romano ospite d’onore Nanni Moretti ha ricevuto il Premio città del diario, conferito ogni anno a una personalità della cultura che si sia particolarmente distinta per l’impegno riservato nella sua attività alla memoria: basti pensare ai suoi film «Caro diario» (1993) e «Aprile» (1998), e agli undici documentari intitolati «Diari della Sacher» su altrettanti manoscritti conservati (con altri circa settemila) nell’Archivio dei diari, negli ormai trent’anni della sua onorata e preziosa esistenza.

Beppe Del Colle

 



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