![]() Accesso utente |
Perchè la Fiat non può abbandonare Torino
Sergio Marchionne e la Famiglia Agnelli-Elkann sono stati vivacemente contestati da due autorevoli industriali, Diego Della Valle, patron di Tod’s, e Cesare Romiti, già presidente Fiat ai tempi dell’Avvocato; è una novità di rilievo nel mondo imprenditoriale, soprattutto per la durezza delle accuse, che mettono in dubbio le capacità del numero uno del Lingotto e le scelte della Famiglia, che premierebbero gli investimenti esteri, dimenticando l’Italia e le maestranze locali, nonostante un secolo di sostegno pubblico al Gruppo. La contestazione per Marchionne non è una novità, dalla Fiom al «Corriere della sera» che lo hanno accusato di trasferire la Fiat da Torino a Detroit; questa volta anche il governo si è fatto sentire, chiedendo incontri e chiarimenti dopo l’annuncio Fiat sulla revisione del piano da 20 miliardi Fabbrica Italia, a causa della caduta delle vendite in Italia e in Europa (mentre la Chrysler va bene). Secondo il sindaco Fassino le decisioni Fiat (attese per il 30 ottobre) non saranno uno «choc»; in realtà siamo già in una condizione grave, perché a Mirafiori la cassa integrazione dura da sei anni, e se ne preannuncia un settimo; Melfi e Pomigliano, nel Sud, temono la chiusura di una fabbrica, dopo le dichiarazioni di Marchionne sulle eccedenze produttive; i sindacati, dopo lunghe divisioni, sono tornati uniti nel chiedere al Lingotto di mantenere le promesse di Fabbrica Italia, senza continui rinvii. La situazione è così seria che lo stesso presidente di Confindustria, Squinzi, afferma che l’Italia non può perdere l’industria dell’auto (indirettamente dà ragione a Della Valle e Romiti), evidenziando un pericolo reale, anche per l’occupazione (la Fiat auto occupa in Italia quasi 50 mila persone, 200 mila con l’indotto). E il governo? I ministri Fornero e Passera, come è noto, hanno sollecitato chiarimenti e incontri al Lingotto, esprimendo preoccupazione. Ma sulla politica industriale la linea del governo Monti (molto valida a Bruxelles) appare debole, con un “liberismo disarmato” che lascia aperte grandi tensioni sociali, dalla Sardegna a Taranto passando per Torino. Se, come ha detto il ministro Fornero, il governo non può interferire sulle scelte di una multinazionale, la partita appare difficile, perché i profitti per Marchionne e gli Agnelli vengono da Detroit. Il manager italo-svizzero-canadese, scelto da Umberto Agnelli nel 2004, ha evitato, si dice al Lingotto, il fallimento della Fiat; in realtà il crollo è stato impedito dal presidente della Repubblica Ciampi, che ha chiesto e ottenuto dalle maggiori banche di non far «cadere» la Fiat mentre a Torino autorevoli banchieri, “nemici” degli Agnelli, proponevano lo «spezzatino» delle aziende del Gruppo, compresa l’editrice La Stampa. Il numero uno del Lingotto, in piena crisi economica mondiale, ha avuto l’idea geniale di offrire ad Obama, per la Chrysler, i modelli a basso consumo energetico del Gruppo, ottenendo dal governo Usa finanziamenti agevolati; ma come tutti i media esteri scrivono, gli investimenti in Italia ed Europa sono stati limitati, anche per le scelte finanziarie della Famiglia, impegnata su altri fronti, tra cui massicci investimenti immobiliari in Europa. Negli Stati Uniti e in Francia Obama e Sarkozy hanno compiuto investimenti «a tempo» per l’industria dell’auto; in Italia la “neutralità” preoccupata del governo non appare sufficiente a cambiare il contesto di crisi dell’industria manifatturiera, nonostante i sindacati (tranne la Fiom) abbiano concesso a Marchionne grandi margini di manovra. Senza un forte impegno pubblico l’auto italiana appare compromessa, con pesanti conseguenze sull’occupazione. Una questione specifica riguarda Torino, già capitale dell’auto, che sarebbe costretta ad un inevitabile declino, dopo la perdita della moda, della direzione Rai, di Telecom, delle “autonomie” San Paolo e Crt, di importanti strutture assicurative… Occorre rilevare, in questo contesto, che le promesse fatte da Marchionne all’ex sindaco Chiamparino sono state eluse, mentre la cassa a Mirafiori morde la periferia e la cintura della metropoli subalpina. Come è stato autorevolmente sollecitato dall’arcivescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia, anche la Famiglia Agnelli, che tanto ha avuto dal territorio, è chiamata a scelte di alta responsabilità. Con il più alto numero di giovani disoccupati tra le metropoli e con almeno 100 mila poveri (dato Caritas), Torino non può reggere l’eventuale perdita della capitale dell’auto. Sarebbe la serie B, con evidenti tensioni sociali. Come ha scritto un autorevole editorialista, non è tempo di Ponzio Pilato. Mario Berardi
|