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Dalla crisi un pensiero "diverso"
Sono state ore in cui il pensiero sociale ed economico ha cercato di spiccare un volo alto. I tre giorni di dibattiti al secondo Festival della dottrina sociale della Chiesa, svoltosi dal 14 al 16 settembre a Verona e organizzato da Fondazione Toniolo, Fondazione Segni nuovi e dal Movimento studenti cattolici, hanno posto al centro la riflessione sulla crisi e la ricerca di pensieri nuovi di cambiamento. Viene già da sperare che questa manifestazione sia solo all’inizio della sua esperienza, perchè da ogni parte è giunto il bisogno di dialogo e di comunità, per condividere nuove idee che mettano al centro l’uomo nella sua complessità odierna. Il titolo del festival, d’altronde, offriva già una provocazione: «Crisi, significati, riferimenti. La necessità di un pensiero diverso». Data l’ampiezza della visione, non è stato facile disegnare un quadro complessivo. È però emersa la volontà di agire insieme, di pensare, di confrontarsi, sapendo che indietro, ai tempi precedenti alla crisi, non si torna. E allora, quale mondo è possibile? E quale indirizzo può dare la Chiesa nella costruzione di una nuova società? Il primo passo prevede la riconciliazione con un pensiero che sia sociale e abbandoni una visione individualista della propria libertà. Lo ha sottolineato Mauro Magatti, preside della facoltà di Sociologia all’Università Cattolica di Milano, che ha descritto gli ultimi vent’anni, conseguenti al crollo del muro di Berlino, come un tempo immerso in una cultura di espansione infinita. Globalizzazione e deregolamentazione dei mercati sono stati il chiavistello che ha dato il via a due decenni in cui l’Occidente ha conquistato una libertà assoluta. «Sì, ma adolescenziale, senza responsabilità», ha specificato il docente. «Ora sappiamo che quella stagione è finita perché irrealistica. Ora dobbiamo diventare adulti, capire se vogliamo un’Europa unita anche nelle istituzioni politiche, se diventare responsabili delle risorse ambientali, che sono finite, se conservare la nostra idea europea di welfare. La risposta, però, potrà venire solo se affronteremo la crisi di senso in cui siamo sprofondati. Se saremo solidali, capaci di alleanze, tra persone ma anche tra istituzioni, tra lavoratori, imprese, sindacati, se saremo capaci di fare economia basandoci su rapporti di fiducia, allora potremo davvero costruire una nuova via». L’esempio l’ha fornito Sergio Urbani, che nel 2004 ha scelto di credere in un progetto sperimentale, promosso da Fondazione Cariplo, per lo sviluppo dell’housing sociale. «Chiedere soldi a basso costo a banche e assicurazioni, terreni a prezzi agevolati ai Comuni, per un progetto di edilizia agevolata, sembrava un’utopia», racconta l’ex consigliere della Fondazione per l’housing sociale, prima impiegato nel mondo delle banche d’affari e oggi dipendente della Cassa depositi e prestiti, «l’idea di fondo non è tanto realizzare case popolari, quanto ricostruire un tessuto sociale e arricchire così la vita delle persone. Nel 2000 è stato realizzato il primo villaggio nella periferia di Milano. Oggi, grazie al lancio di un primo fondo immobiliare etico, partito da 85 milioni di euro e ora divenuto di 220 milioni, in Lombardia stiamo realizzando altri progetti simili. Prima di costruire si individua il territorio per conoscere le risorse sociali che lo animano. Associazioni che possano dar vita agli asili nido, operatori sociali che possano prendersi cura di un progetto di assistenza residenziale per anziani o per la promozione culturale del territorio, sono alcune delle realtà determinanti per lo sviluppo edilizio. E in una società multietnica è fondamentale che si favorisca l’incontro delle persone, altrimenti qualsiasi condominio può diventare un ghetto». L’iniziativa ha quindi interessato anche il governo, che ha voluto replicare questo modello su piano nazionale, e adesso sono circa 30 i fondi avviati in tutta Italia, per un valore di 3 miliardi di euro, di cui un terzo proveniente dalle risorse territoriali. E anche l’edilizia cambia, privilegiando l’ecosostenibilità, il risparmio energetico, il legno al cemento. «Ero stanco di vivere in un Paese individualista, di non lavorare per qualcosa che esprimesse un senso per la collettività. Ora spero che anche il mio lavoro serva a dare risposte ai bisogni di welfare, ma anche a favorire una nuova comunità, una democrazia partecipata». Il valore del territorio è stato sottolineato anche da Stefano Zamagni, ordinario di Economia politica all’Università di Bologna, a fronte di una globalizzazione che ci voleva tutti omologati a un pensiero unico. Invece le diversità sono esplose, tanto da rendere anacronistica e a volte illogica la risposta uniformante dello Stato ai bisogni locali. «ll limite del welfare state sta nel non tener conto delle differenze e le specificità dei territori», ha evidenziato Zamagni a Verona, «occorre invece recuperare una dimensione locale delle politiche sociali, passando dallo Stato alla società e riscoprendo un principio nato nella tradizione del pensiero cristiano, quello della sussidiarietà. Le istituzioni economiche, come quelle politiche e amministrative, hanno giocato un ruolo pesante in quest’epoca. Hanno favorito lo sviluppo di quelle che Paolo VI chiamava “strutture di peccato”, che hanno prosciugato le risorse del lavoro e dell’economia reale. Si pensi che già nell’Ottocento l’economista David Ricardo indicava al 16 per cento il limite della proporzione rendita-Pil, oltre il quale la rendita erode i salari e il profitto. Nel 2010 l’Istat registrava che la quota di rendita sul Pil nazionale è del 33 per cento. Bisogna lottare contro le rendite finanziarie, ma anche burocratiche, immobiliari, corruttive, che strangolano l’economia reale. E le istituzioni, non solo i singoli, hanno grandi responsabilità». Ma anche gli imprenditori, secondo l’economista, devono cambiare mentalità, cominciando ad organizzare il lavoro in modo post taylorista, perché «siamo entrati nella società della conoscenza e dobbiamo essere flessibili, per favorire l’ingresso delle donne, ancora troppo discriminate, nel mondo del lavoro e promuovere i giovani. Per loro non servono prediche paternalistiche, servono più start-up. Occorre abbattere i paletti che ostacolano la nascita di nuove attività, soprattutto nel sociale. E riscoprire le nostre radici antiche di fraternità e reciprocità». Il contributo del presidente della Corte dei conti, Luigi Giampaolino, ha descritto i passi che l’Italia sta facendo sulla strada del risanamento, ma ha anche evidenziato che il rigore non basta e la crescita ne risente. «Non si potrà tornare alla situazione precedente la crisi, perché è cambiata l’intera economia mondiale. È indispensabile che l’etica, la trasparenza, la tensione morale delle istituzioni stiano alla base dell’interesse pubblico e del bene comune». «La maggior parte dell’establishment economico-finanziario sta remando contro il bisogno di cambiamento», ha invece incalzato Marco Vitale, presidente del Fondo italiano investimenti delle Piccole e medie imprese, «continua a difendere il sistema che ci ha portati alla crisi per evitare di cambiarlo. Eppure sappiamo che tutte le certezze su cui si basava sono crollate. Abbiamo bisogno di una via nuova, stiamo già camminando lungo una strada di trasformazione, anche se non ne vediamo l’approdo. Dove arriveremo, però, dipenderà da noi». Nuovi pensieri che stanno cercando un confronto costruttivo ci sono: Vitale cita il gruppo Roosevelt 2012, che propone un New Deal del XXI secolo, oppure le riflessioni del Global democracy manifesto, cui contribuiscono Bauman, Chomsky, Attali. Ma anche Bill Clinton, che nel recente discorso alla convention democratica ha dichiarato che lavorare per pari opportunità e diritti non solo è moralmente buono, ma anche economicamente efficiente. «Ci vorrà molto tempo per cambiare l’economia, ma siamo aiutati dal pensiero della dottrina sociale. Servirà una conversione, per tutti, anche per alcuni vertici della Chiesa, come testimoniano recenti vicende che coinvolgono lo Ior». Fabiana Bussola
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