Elsa Morante segreta

 «Nacqui nell’ora amara / del meriggio nel segno del Leone, / un giorno di festa cristiana». Era domenica, infatti, quel 18 agosto del 1912 che vide la nascita di Elsa Morante, la più creativa titolare, nonostante i suoi non moltissimi libri, della moderna categoria della metamorfosi.

Cent’anni dopo, malgrado l’intensa successione di studi e di approcci analitici sulla sua opera, sembra incredibile ma una solida italianista come Graziella Bernabò apre il suo recente saggio su vita e opera della scrittrice romana («La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura», Carocci, pp. 339, € 24,00) con questa frase: «Scrivere su Elsa Morante significa osare».

Analisi non facile, dunque, esposta alle «sconvolgenti profondità» così come alle «altezze imprevedibili» della sua scrittura, tra rischi e bellezza, «indubbie asperità del carattere» e «profonda pietas verso l’essere umano». Ne esce un saggio biocritico e pluriprospettico di versatile complessità, che tiene attentamente conto delle ispirazioni e delle emozioni tanto quanto delle strutture, degli stili, dei significati e delle psicologie che volta a volta la Morante confessa, adotta, anima o realizza. A cominciare da un primissimo racconto, «Il ladro dei lumi» (1935), che dilata sulla pagina infantili paure, sogni da favola e precisi ricordi religiosi. Vi alberga un Dio immenso e minaccioso, una nube tempestosa d’arcaico potere cui nulla e nessuno sfugge per colpa e castigo.

Così, dopo incerte prove d’inizio anni Quaranta, «Menzogna e sortilegio» (1948) si aggiudica i favori della critica affrontando le prospezioni di un universo magico e favoloso in parallelo a un reale etico-storico distorto e repressivo. Sogno e memoria si misurano con incubi e inopportunità, non-sensi e anacronismi. Ma oltre la sequenza minuta e inarrestabile dei fatti lungo il fluviale numero delle pagine e degli eventi, «Menzogna e sortilegio» è il racconto simbolico del disfacimento di un vecchio mondo feudale e piccolo-borghese nostro italiano ma anche occidentale. Dove persiste una religiosità superstiziosa, idolatrica e morbosa, non aperta né all’infinito né al mistero né all’amore per la vita o per gli altri, mentre la figura della piccola Elisa incarna una autentica spiritualità, una sincerità indenne dalle deviazione degli adulti (tanto che la Vergine è una Regina, Cristo un Principe e gli Angeli altrettanti paggi).

Dopo il racconto «Lo scialle Andaluso» (1953), ricca e affascinante se pur contraddittoria rappresentazione del “materno”, irrompe il romanzo «L’isola di Arturo» (1957), dove un mitico paesaggio adolescenziale s’impone stavolta sulla realtà esterna e sulla storia proprio perché recupera totalmente la vita semplice e schietta della gente in una sorta di “realismo amoroso” fondato sul valore primario e sacro della vita. Qualcosa che tiene la Morante in un percorso creativo intimamente disputato tra oscurità e visione (che a volte è veggenza), dentro una prospettiva di specchi dalle inattese e buie rifrazioni: quelle del suo esistenziale quotidiano in speculare confronto con l’essenza del suo mondo segreto.

Ma quando in lei sarà la volta di una specifica scelta ideologica, non altrimenti il suo esito potrà essere chiamato, meglio che un «anarchismo umanitario» un più appropriato «evangelismo paleocristiano»: come avviene nelle pagine (1968…) de «Il mondo salvato dai ragazzini», sviluppo del precedente e consostanziale «Canzone dei Felici Pochi e degli Infelici Molti», di qualche mese prima. Ma forse che, lontani e dialettici ed elaborati richiami di sentimento religioso non saranno presenti anche ne «La storia» (del 1974)?: libro esame di coscienza, domanda ontologica, ordalia e preghiera; libro lontano dalla consuetudine favolistica quant’altri mai fino a rasentare aspetti neorealistici, perfetto supporto al quasi “oratorio” di «Pro o contro la bomba atomica» (del 1987).

Irrisolto e psicologicamente involuto, invece, era stato qualche anno prima «Aracoeli» (del 1982), che l’autrice di questo odierno saggio sulla Morante vede come impossibile «ritorno alla madre» nella fattispecie della tragedia consumatasi all’interno d’una famiglia e nella dolente sacralità della vita. Ma non ci sono anche in questo romanzo gli estremi perché, nel desertico mondo etico e morale che vi si prospetta, nel querelarsi del dolore umano e del male universale, siano denunciati l’assenza spirito e il vero mortale silenzio, quello della coscienza religiosa?

Facendo poi largo spazio anche alle vicende esistenziali del suo oggetto di studio, Graziella Bernabò dedica struggenti e sapienti attenzioni al matrimonio della Morante con Moravia (uomo cupo e indecifrabile), all’amicizia finita male con Pier Paolo Pasolini («il poeta»), alle simpatie, amicizie, dedizioni e devozioni, fino a comporre un quadro di piena intelligenza d’indagine.

Claudio Toscani

 



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