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Il riscatto del Sud nelle radici della terra
«”Credo che sia venuta alla luce Krimisa. O comunque una città antichissima. Anzi, sono sicuro che è Krimisa….”. Io stavo muto, concentrato a scansare gli alberi sulla strada e le pozzanghere più viscide. E intanto cercavo e non trovavo le parole più semplici che avrei voluto dirgli, quelle di gratitudine per la storia che avevamo vissuto e che un giorno avrei raccontato a mio figlio. Promesso, pà (…). Ero felice, si. Perché nel fulgore di quella mattinata finalmente limpida mio padre era ancora vivo e mi aspettava sulla nostra collina per un ultimo abbraccio, il più importante della mia vita». Sono le battute finali del romanzo «La collina del vento» , edito da Mondadori, con il quale il calabrese Carmine Abate ha stravinto il Campiello 2012 sulle orme di Saverio Strati, che 35 anni fa vinse il premio degli industriali veneti con «Il selvaggio di Santa Venere». La Calabria si riappropria così della sua nobile tradizione letteraria, alzando con questo coinvolgente romanzo di Abate il profilo sempre più basso della narrativa italiana, ridotta a velleitario e piatto intrattenimento. Conobbi Carmine Abate nel maggio 2007 alla Fiera del Libro di Torino, dove eravamo stati invitati (c’era pure Vito Teti) a parlare di Calabria. Mi colpirono la sua disarmante semplicità e il suo sguardo profondo. Il viso celava la forza del suo peregrinare, del suo “vivere per addizione” e dava al suo argomentare la pregnanza di una storia umana e letteraria intensamente vissute. Tutti e tre convenimmo che la cultura e la letteratura dovessero servire per abbattere tanti luoghi comuni sulla nostra terra attraverso la narrazione di storie autentiche, Mi confidò che stava lavorando ad una nuova storia (era da poco uscito «La festa del ritorno», che nel 2011 è stato tra i cinque libri più venduti negli Stati Uniti) ambientata in Calabria, recuperando la nostra memoria più preziosa e facendo sentire i calabresi meno soli. «La collina del vento» racconta il Novecento di una famiglia calabrese attraverso tre generazioni che vivono in simbiosi con la terra-madre, da dove può partire il riscatto e dove i profumi, i colori e i miti di una civiltà millenaria alimentano sogni e mondi nuovi possibili. «Era un miscuglio di ginestra e sambuco in fiore, di origano e liquirizia, di cisto, menta e malva selvatica, che la brezza marina faceva roteare sulla cima della collina come un’aureola invisibile». Una collina che dà al romanzo un sapore noir, con i segreti sepolti e svelati solo alla fine, con un intreccio narrativo fitto e intarsiato, come i tappeti della gente italo-albanese .Una collina che ha nelle sue viscere i resti di un’antica civiltà che Paolo Orsi si ostina a portare alla luce e che darà alla famiglia Arcuri la linfa vitale del loro riscatto socio–economico. Abate rende così omaggio ad una figura che ci delinea con la sua ormai matura e trasparente scrittura. L’officina letteraria di Abate ha una lunga storia e l’ultimo romanzo riesce a condensare e sintetizzare con seducente ritmo narrativo un percorso via via in crescendo ,come nelle migliori sinfonie: «Paolo Orsi si aggirava in mezzo ai ruderi come un fantasma alto e silenzioso. (…) Il bambino inseguiva quasi di corsa il passo lungo del professor Orsi e, soprattutto, le sue parole difficili che cercava di memorizzare come una poesia di cui non si comprende il senso per il suono ammaliante, per enigma che cela. Raccontava e camminava instancabile, il professore, fiutava l’aria e tastava il terreno. Teneva una mano pigiata sul suo cappello per paura che gli volasse via. E intanto continuava a camminare e a parlare. (…) Il vento non smette mai di fiatare sulla collina, sale dalle timpe, dalla fiumara o dal mare, scuote gli alberi, accarezza il cocuzzolo giorno e notte, ruzzola lungo i pendii come un bambino felice, ma quando si arrabbia sono guai: vortica risucchiando ogni cosa, polvere, rametti spezzati, foglie, spine e breccia, che scaglia tutt’intorno con la furia di un vulcano impazzito». E’ anche poeta, Carmine Abate (il suo primo libro è una raccolta di poesie) e impregna le sue pagine con una scrittura sanguigna e carnale, frutto delle origini arberesche (è nato a Carfizzi, in provincia di Crotone, un paese italo–albanese a 50 chilometri dalla Sila e a circa venti dalla costa jonica) che infarciscono il linguaggio di tanti fonemi dai suoni antichi, che trasudano radici incancellabili per chi ci è nato (ciotìe, sanizzi e sperti, viaggèri, guagnuno, figliuma, mutucitto, ecc.). La collina del Rossarco intorno alla quale ruotano tutte le vicende di questo romanzo è l’emblema del possibile riscatto del Sud. Una famiglia, gli Arcuri, nelle cui vene scorre sangue socialista, disposta a difenderla dai bramosi attacchi del feudatario Don Lico (riecheggia la figura di Don Luigi Nicota de «I fatti di Casignana» di Mario La Cava) che alimentava l’autoritarismo del nuovo regime fascista e dei mafiosi d’ultima generazione con le scarpe lucide, pronti a devastare le “mammelle” calabresi con le pale eoliche o sfigurare le coste con giganteschi scheletri di cemento incompiuti. Sulla intensa copertina de «La festa del ritorno» sono riportate le parole che Vincenzo Consolo dedicò a Carmine Abate, sintesi mirabile della sua poetica che trae origine da un’oralità antica, linfa segreta della narrativa del Sud: «Uno scrittore che si distingue per visione civile del mondo, impegno della memoria e originalità di scrittura». La lezione di Pavese, di Alvaro, della letteratura del Sud America hanno lasciato il segno in Abate, che riesce a restituirci il fascino di una civiltà contadina di pasoliniana memoria, troppo in fretta messa in soffitta dallo sregolato e devastante sviluppo economico. Non a caso Abate ritorna sulle lotte contadine calabresi per la conquista delle terre. Un accenno rapido, ma che serve a denunciare la mancata realizzazione di una vera riforma agraria che di fatto generò poi l’emorragia migratoria degli anni Cinquanta e la conseguente forza intimidatoria della ‘ndrangheta, guidata dai vecchi e nuovi pastori arricchiti. Una civiltà contadina che respira in tutto il libro e che restituisce, con uno stile scorrevole e ben controllato, la magia delle origini, delle vere radici, carne e sangue «che avrebbero impregnato questa terra per l’eternità». Gianni Carteri
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