Michele Baretta tra sacro e profano

 

 

A venticinque anni dalla morte di Michele Baretta (1916-1987), figura di notevole rilievo nel panorama del Novecento piemontese, due mostre onorano questo artista a cui si deve la decorazione della cupola della chiesa torinese Madonna della Pace da lui affrescata nel 1958 con «Il trionfo di Maria», che integra e completa gli affreschi di due catini absidali con «La Natività» e «La deposizione», in un ciclo continuo sulla vita di Maria.

Il Comune di Vigone, dove è nato l’artista, e dove sono ancora parzialmente leggibili gli affreschi, in forma di medaglioni con il volto di Cristo, di una «Via Crucis» del 1945 nella Cappella di San Bernardi, gli dedica una piazza della cittadina e nelle sale della Biblioteca Luisia una mostra antologica che raccoglie i paesaggi e le vedute dedicate ai «Luoghi vigonesi». La Fondazione Cosso nelle sale del Castello di Miradolo a Pinerolo (To) raccoglie fino al 30 settembre quasi un centinaio di opere, presentate in sei sezioni: «L'uomo e l'artista» (documenti sulla biografia di Baretta e sulle sue diverse tecniche pittoriche, ma anche alcuni autoritratti), «I cavalli e la Camargue», «Il circo», «La figura femminile», «Il paesaggio», «Il sacro».

Michele Baretta è un artista autodidatta, che si muove tradizione e modernità, al di fuori delle diverse scuole, anche se dal 1929 al 1935 ha seguito agli Artigianelli di Torino la scuola di pittura fondata da Enrico Reffo, da cui ben presto si è staccato  sviluppando una pittura dove la figura è come “schizzata” e percorsa da illuminazioni diverse, pittura che Marziano Bernardi descrive come «un arte in cui linea, colore e immagine esprimono la sua vibrante scansione espressiva» nel catalogo della mostra del 1956 alla galleria «La bussola» di Torino. Certamente a questa maturazione sono serviti i numerosi viaggi all’estero, a Parigi, a Londra, a Madrid, come in Egitto e in Marocco, che non solo sono stati occasione per studiare il paesaggio, come documentano le opere esposte in due sezioni della mostra di Pinerolo.

Si consideri il paesaggio del 1960 «Il Tamigi a Londra» e si può subito notare la distanza di questo sguardo dai paesaggi infuocati di Turner o da quelli impressionisti di Monet o di Renoir, per constatare un approccio alla realtà che coglie più l’atmosfera della realtà stessa, ma senza risolverla in un’impressione soggettiva. Sono paesaggi che in un certo qual senso ricordano quelli dei Filippo De Pisis. Ma dove l’artista rivela meglio se stesso è la figura umana che sa guardare con una condivisione di sentimenti e trasferendo l’immagine sulla tela senza definirla pesantemente nei suoi contorni, quasi solo accennandola, cogliendone insieme tutta la vita nella gioia o nel dolore, pur isolandola da ogni contesto narrativo.

Un discorso a parte meritano le quattordici stazioni della «Via crucis» del 1961 esposte in mostra per rappresentare il mondo del sacro in Baretta. La Via crucis è  un tema che l’artista ha affrontato più volte, senza ripetersi, servendosi sia dell’affresco che della pittura su tela e su tavola, in forme sempre diverse. In mostra c’è un quadro che fa da cerniera tra il profano e il sacro: è una tela di grandi dimensioni del 1965 «Figlio della Resistenza». Un contadino trasporta tua le sue braccia robuste il corpo livido di un partigiano massacrato, di fianco l’accompagna la madre avvolta il un manto nero; quasi una deposizione  laica. Non è una dissacrazione, infatti nella «Porta del bene e del male», che Luciano Minguzzi aveva preparato per la Cattedrale di Bologna, in una striscia l’artista ha tracciato sette figure di partigiani legati al legno con spinato, che ricordavano i partigiani uccisi in quel modo a Casaleccio. La Sovrintendenza di Bologna non autorizzò la collocazione di quella porta, perché sarebbe stato in contrasto con le sculture di Jacopo della Quercia che ornano la facciata della chiesa. Minguzzi donò la porta a Paolo VI per il suo ottantesimo compleanno, e la porta è diventata la quinta porta di San Pietro a Roma.

Veniamo alle  cinque «Via Crucis» di Baretta, la prima è quella ad affresco del 1945 a Vigone, in gran parte perduta. La seconda del 1955, oli su tela, in piccolo formato, si trova nella chiesa di San Luigi IX nell’immediata periferia di Pinerolo; qui l’artista dà molto spazio all’ambiente scenico, ogni tavola è un insieme corale di figure, le strutture architettoniche o i cieli, per gli episodi che si svolgono all’aperto, inquadrano gli uomini. La figura di Cristo sempre in bianco segna la linea di continuità di questa opera. La terza del 1959, in idropittura sulle pareti della chiesa parrocchiale Cottolengo di Borgata Lucento di Torino, invece, è costruita solo con i personaggi delle diverse stazioni, a grandezza quasi naturali, dipinta con colori molto tenui. I cartoni di quest’opera, che a causa della tecnica usata, sta deteriorandosi, si trovano alla Biblioteca Luisa di Vigone e restano un documento prezioso. Quella in mostra è del 1961 e si trovava nella Cappella della casa Angeli del Cottolengo a Pinerolo. Qui l’artista ha scelto per le diverse scene una risoluzione verticale ridotta a pochi elementi, spesso solo due persone, il Cristo sempre con il manto rosso, la croce appena accennata. Mira all’essenziale, quasi un’astrazione, ed obbliga lo spettatore a concentrare la sua attenzione per cogliere e condividere l’emozione creativa dell’artista, esige uno sforzo di meditazione che va oltre la devozione facilmente sostenta da un’immagine narrativa.

L’ultima «Via Crucis» del 1962 si trova nel Santuario di Nostra Signora del Buon Consiglio a Cantogno presso Villafranca Piemonte. Qui l’artista, non più condizionato dallo spazio verticale, lascia libera la fantasia in un racconto dall’ampio respiro, che non usa più i colori violenti di quella di San Luigi, ma nemmeno i colori tenuti di quella torinese del 1959, non affolla le figure delle scene, né le riduce all’essenziale, ha trovato come un felice equilibrio espressivo. Ciò detto in una lettura trasversale di queste variazioni sul medesimo tema, resta il fatto che ciascuna «Via Crucis» nel suo proprio modo documenta la spiritualità di un artista che usare con abilità e sicurezza le tecniche più diverse.                                  

Concludo con una bella testimonianza, di Mario Marchiando Pacchiola, a cui si deve una monografia su il sacro in  Michele Baretta, edita dal Museo diocesano di Pinerolo nel 1999: «Ero in Paradiso, nel Paradiso che l’artista nel 1958 si era immaginato, a trentasei metri da terra, per la grande cupola della chiesa Maria Regina della Pace. E' accaduto durante i restauri del 2009, impatto emozionante: mani operose e sapienti stavano lavorando per la buona conservazione dei grandi affreschi, restituendo alla visibilità la bellezza della pittura. In quel Paradiso aleggiava alta la colomba dello Spirito, con il Padre nostro creatore, con Maria, con Gesù Bambino in atto a porgere il ramo dell'ulivo, simbolo e anelito di pace. Roteava lo stuolo degli angeli, le grandi figure che con la loro espressione, gestualità, compostezza davano vita alla narrazione, alla storia dell'uomo e della sua salvezza nel grande contesto biblico e universale. Cosa avrà provato Baretta dinanzi a metri e metri di parete vuota, qui come altrove nelle grandi aule disseminate in mezzo Piemonte! C'è da provare smarrimento e sconcerto davanti o sotto a una superficie bianca immensa da campire, figure da collocare, armonia da creare e trasmettere. Quando l'artista sarà salito sul ponteggio a raccontare avrà avuto già chiaro il percorso perché studiato, misurato, concepito, tra schizzi e bozzetti preparativi. Sui grandi fogli di carta spolvero, la traccia, le linee e il segno di qualche valore chiaroscurale... poi la trasmissione sul muro. La pittura a fresco si arricchirà di cromatismi e trasparenze e raggiungerà completezza». Il catalogo, edito dalla Fondazione Cosso, riporta a colori tutte le opere, con un saggio introduttivo «Il segno e l’immagine» di Angelo Mistrangelo. La mostra «L’uomo e l’artista» è aperta al Castello di Miradolo, Pinerolo (To), fino al 30 settembre. Per informazioni, prenotazioni e visite didattiche telefonare al numero 0121-376545.

 Piero Viotto

 



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