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La Terra non ha più risorse per tuttiSiamo a debito. Lo sono molte famiglie italiane, che non riescono più ad arrivare alla fine del mese. Lo è l’intero Paese, che vede il proprio deficit pubblico aumentare nonostante (o a causa di?) una politica tutta tagli, sacrifici e lacrime. Lo è, soprattutto, l’intera umanità nei confronti dell’ecosistema planetario. Ce lo ha comunicato ufficialmente l’organizzazione non governativa Global Footprint Network (Gen), che da quasi un decennio calcola la nostra “impronta ecologica” sul pianeta, ovvero quanto i nostri bisogni e consumi incidano sulle risorse e sull’ecosistema globale. Con un annuncio ripreso dai media di tutto il mondo, il Gfn ha individuato nel 22 agosto appena trascorso l’Overshoot Day, il giorno in cui il consumo della popolazione umana supera la capacità di produzione annuale del pianeta. Come una famiglia che termina lo stipendio alla terza settimana del mese, anche l’umanità da quel momento inizia a intaccare i “risparmi”: foreste secolari, grandi banchi di pesci degli oceani, suolo coltivabile, riserve idriche e, soprattutto, combustibili fossili: ovvero le riserve che la Terra ha accumulato in milioni di anni e che non è in grado di rigenerare, perlomeno non nei tempi sempre più rapidi con cui le divoriamo. Il problema è serio, e lo diventa ancor più se teniamo conto della tendenza in atto. Da quando il concetto di Overshoot Day è stato definito ad opera della New Economics Foundation di Londra e la nostra impronta ecologica è stata messa a confronto con le capacità produttive e di rinnovamento del pianeta, la situazione è andata in progressivo e rapido peggioramento. Il primo giorno in cui l’umanità ha ufficialmente “sconfinato” è stato il 19 dicembre 1987, qualche giorno prima della fine dell’anno in corso, a seguito di una situazione in peggioramento fin dagli anni Settanta. Ma da allora le cose sono precipitate, anticipando sempre più la data di esaurimento delle disponibilità “correnti”: l’anno scorso era successo il 27 settembre, quest’anno ci siamo mangiati un altro mese, arrivando a superare del 50 per cento la capacità produttiva della Terra. In altri termini, significa che «già oggi avremmo bisogno di un pianeta e mezzo» per soddisfare i nostri bisogni, come ha affermato Mathis Wackernagel, fondatore e attuale presidente del Gfn, e in prospettiva le cose sono destinate a peggiorare rapidamente, tanto che prima della metà del secolo arriveremo a consumi equivalenti a due Terre. Una cosa evidentemente impossibile e insostenibile già oggi, con due miliardi di persone che non hanno accesso alle risorse indispensabili per la loro sopravvivenza, mentre altri vedono ridursi progressivamente un benessere dato troppo spesso per scontato e che ci ha indotto a lungo a consumare ben più del consentito. Il discorso dell’ecosostenibilità, in più, per quanto possa apparire disgiunto, in realtà si lega a doppio filo con quello della crisi economica: non si può continuare a programmare una crescita insostenibile sfidando i limiti fisici posti dalla natura, e non si può pensare di ridurre il debito pubblico continuando a consumare risorse sempre più ridotte e, conseguentemente, sempre più costose. L’esempio più eclatante è naturalmente il petrolio, materia prima essenziale all’attuale ciclo economico, che diventa sempre più difficile da sfruttare, sale di prezzo e di importanza strategica (con relativa crescita dei conflitti per il suo controllo) e contribuisce in maniera rilevante all’inquinamento atmosferico e al riscaldamento globale, ma di cui sembriamo non riuscire a fare a meno. In queste condizioni, non possiamo che aspettarci un inesorabile aumento del suo derivato numero uno, la benzina, che già oggi sfiora livelli insostenibili specialmente nel nostro Paese, dove è oltremodo gravato da un’imposizione fiscale spropositata. E da qui l’innesco di una spirale inflattiva destinata a erodere inesorabilmente i nostri livelli di benessere, già pesantemente intaccati dalle politiche di sacrifici imposte ai propri cittadini da governi italiani ed europei forse più attenti alle alchimie di bilancio che alle persone, più riguardosi verso le lobby finanziarie che speculano sulle nostre vite e sul nostro futuro e meno sensibili e interessati verso le politiche ambientali. Un quadro sconfortante, che lascia poche speranze, a qualunque livello lo si osservi, da quello locale fino a quello globale: partendo per esempio da Torino, città post-industriale che non ha ancora trovato una nuova via di sviluppo e continua a perdere posti di lavoro e centralità strategica, arriviamo a un Piemonte specchio allargato del capoluogo, con industrie che falliscono o delocalizzano le produzioni verso Paesi a costo del lavoro più basso per lucrare maggiori guadagni, lasciando interi territori sul baratro economico. Uno schema che si ripete nel sistema-Paese Italia, che per troppo tempo ha puntato su un recupero di produttività basato solo sulla riduzione del costo del lavoro, trascurando colpevolmente ricerca e innovazione, e ha giocato su uno sviluppo fittizio, perché palesemente insostenibile, quale quello della cementificazione selvaggia, che ha divorato chilometri di territorio per soddisfare gli appetiti della speculazione edilizia e del businness delle infrastrutture. Al di sopra di ciò, un’Europa che di fronte agli attacchi speculativi non riesce a concertare alcuna reazione unitaria che non sia quella di decretare l’insostenibilità del proprio welfare, quello stato sociale che fino a poco tempo fa ci rendeva esempio e aspirazione per il resto del mondo, e che oggi viene eroso con velocità e determinazione. In sintesi, siamo senza futuro: stiamo rapidamente esaurendo ciò che la Terra, la nostra casa comune, può offrirci e questo determinerà inesorabilmente, e in un tempo breve, la fine della nostra esistenza perlomeno come la conosciamo oggi. È praticamente certo, con la tendenza attuale. A meno che, naturalmente, non ci decidiamo a cambiare velocemente e radicalmente i nostri stili di vita e i nostri modelli di sviluppo, riconvertendo l’economia secondo uno stile green e rimettendo al centro delle politiche la persona, invece del profitto. Un cambiamento che, se agito in maniera rapida ed efficace, potrebbe consentirci di far ripartire la crescita su basi nuove, in armonia con i ritmi dell’ecosistema Terra, quindi sostenibile, garantendo una ripresa dell’occupazione e dei livelli di benessere materiale e psicofisico di cui godeva fino a poco tempo fa l’Occidente, estendendoli anche al resto della “famiglia umana” secondo principi di giustizia sociale e solidarietà. Tutte cose di cui, al momento, non si riscontra traccia nelle politiche locali, italiane, europee, mondiali. E, quel che è peggio, neppure nelle coscienze e nei comportamenti quotidiani della maggioranza della gente. Per questo è imperativo e urgente impostare il cambiamento a partire da subito e da noi stessi, dalle nostre abitudini e stili di vita. Qualcosa di ancor più vero per i cristiani, che dovranno verificare la coerenza fra l’adesione ai richiami verso questo nuovo corso espressi anche dal Pontefice, e il sostegno politico a governi che agiscono in maniera diametralmente opposta. Riccardo Graziano
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