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Venezia: il cinema e la fedeC’è un filo rosso, sottile ma ben visibile, che lega molte delle pellicole proiettate finora alla 69ª Mostra del cinema di Venezia, fuori e dentro il concorso. In attesa di sapere a chi, tra i 18 film in competizione, verranno assegnati sabato 8 settembre il Leone d’oro e gli altri prestigiosi riconoscimenti, al Lido è apparso evidente, fra gli addetti ai lavori, che il rapporto con la religione (cristiana, ebrea, musulmana) e, più in generale, con la fede, sviluppato in forme perlopiù partecipative, ma anche, in misura minore, dubitative e provocatorie, è stato il tratto dominante dei primi quattro giorni di manifestazione lagunare. Nel momento in cui questo giornale va in stampa, infatti, sugli schermi di Venezia 2012 sono già state proposte a critica e pubblico opere come «Clarisse» di Liliana Cavani, «The reluctant fundamentalist» dell’indiana Mira Nair, «At any price» dell’iraniano trapiantato negli Stati Uniti Ramin Bahrani, «Fill the void» dell’israeliana Rama Burshtein, «Paradise: faith» dell’austriaco Ulrich Seidl, «The Master» dell’americano Paul Thomas Anderson e «To the wonder» del connazionale Terrence Malick. Tutti film che rivelano, seppure con intenti ed esiti diversi, un marcato interesse verso i valori del sacro, il mistero divino, gli orientamenti religiosi e le pratiche devozionali. Un interesse, come detto, declinato in tutte le sue gradazioni, da un approccio narrativo oggettivo a una modalità di racconto pretestuosa, da una sincera necessità documentativa a una limpida funzionalità mistica. Se il cortometraggio della Cavani offre in soli venti minuti la testimonianza aperta e niente affatto scontata delle Clarisse di Urbino, mettendo il pubblico a contatto diretto con la realtà della clausura femminile e suscitando nello spettatore un effetto gratificante per autenticità e compostezza delle suore intervistate, il lungometraggio della Nair (tratto dal bestseller «Il fondamentalista riluttante» di Hamid Mohsin) prende le mosse dalla tragedia dell’11 settembre 2001 per lanciare un messaggio di pace e di distanza da ogni fanatismo religioso, mettendo in scena con elegante ordinarietà stilistica le vicende di un ragazzo pakistano che, giunto a New York, diventa un cinico consulente finanziario. Fino a quando l’attentato alle Torri Gemelle e la chiusura ostile verso ogni straniero da parte della società americana, in quei giorni traumatici, instillano in lui il dubbio sulla propria condotta morale e premono per un ritorno al proprio Paese e per l’adesione ideologica al terrorismo di matrice fondamentalista. Ricognizione altrettanto ordinaria su un conflittuale nucleo familiare dell’America profonda, «At any price», in concorso per il Leone d’oro, ha per protagonista un padre (interpretato fin troppo sopra le righe da Dennis Quaid), arrivista e donnaiolo, che ha ereditato un’azienda agricola dal proprio genitore e si scopre rammaricato del fatto che i suoi due figli siano interessati a fare altro nella vita (le corse automobilistiche e viaggiare per il mondo) anziché salire su un trattore e mietere il grano. Prevedibile nello svolgimento, ma provvisto di una buona progressione nel racconto, il film di Bahrani si chiude con un coinvolgente invito al perdono, con il padre che, dopo ripetute tensioni con il primogenito (Zac Efron), decide di accollarsi la responsabilità di un omicidio commesso proprio dal figlio ribelle. Un riscatto morale che servirà, pur tra dubbi e sospensioni affettive, a rimarginare le ferite familiari. Con «Fill the void», invece, la macchina da presa si incunea per la prima volta nella comunità ultraortodossa chassidica di Tel Aviv. Diretto da una regista che è parte integrante della stessa comunità, il film segue con la giusta distanza emotiva la storia di una diciottenne che intende sposarsi a breve, ma che vede mutare il proprio destino dalla morte della sorella maggiore, non sopravvissuta al parto del suo primo figlio. Il lutto, a quel punto, contrassegna la vita della famiglia e del giovane marito di lei, ora vedovo, per il quale, però, la madre della defunta, volendo accudire il nipotino appena nato, ha in mente un nuovo matrimonio, proprio con la figlia diciottenne. Delicato nell’esposizione delle vicende e nell’osservazione delle rigide regole del mondo ultraortodosso, non privo, comunque, di una punta di ironia in alcuni fondamentali passaggi, «Fill the void», come ha sottolineato Rama Burshtein, unisce onesta volontà descrittiva e messa a fuoco personale di un universo a sé stante. Senza produrre necessariamente confronti obbligati con gli culti, ma incuriosendo anche lo spettatore più agnostico. Ma al di là dei lungometraggi citati, altri tre lavori, presentati in concorso, hanno calamitato l’attenzione degli addetti ai lavori. Dopo le profonde riflessioni metafisiche di «The Tree of Life» (Palma d’oro a Cannes 2011), Terrence Malick esplora in «To the wonder» le ondulazioni dell’amore, dall’entusiasmo travolgente dello sbocciare dei sentimenti all’indifferenza muta dell’inaridimento affettivo: non solo l’amore terreno, attraverso il rapporto intenso ma instabile tra un uomo e una donna (interpretati da Ben Affleck e Olga Kurylenko), ma anche l’amore divino, con un sacerdote (Javier Bardem) in crisi vocazionale, alla ricerca di quello slancio verso l’assoluto che sente ormai mancare dentro di sé. Utilizzando i boulevard parigini, le maree dell’abbazia di Mont Saint-Michel e le dorate distese di grano dell’Oklahoma come controcampo dell’anima, e facendo ricorso alla stessa, abbagliante confezione estetica di «The Tree of Life», Malick compone un’ulteriore sinfonia, visiva e acustica, sul senso del mistero che abita nell’uomo e nella natura, nella quale il conforto della fede occupa un ruolo di primo piano. Quanto è accettabile, per la coppia di giovani e per il maturo prete, il dovere di amare, a tutti i costi e a ogni condizione? Quanto è sostenibile, per una vita intera, la sfuggente mutevolezza dei sentimenti? Sono queste le domande che «To the wonder» pone allo spettatore, inseguendo il sublime e la bellezza come pochissimi altri film oggi hanno il coraggio di fare, rischiando consapevolmente di cadere nella banalità per i tanti interrogativi pronunciati ad alta voce, come in un flusso di coscienza, e sfiorando volontariamente la saturazione sensoriale nel sovrapporsi incessante di immagini, suoni e parole. Ma la pellicola di Malick, pur rivestita di una forma esteriore fin troppo esibita nella sua magniloquenza, punta alla sostanza, ad una passione in grado di trasformarsi, di fotogramma in fotogramma, in compassione. Non smettendo di osservare, con infinita speranza, l’uomo. Non stancandosi di guardare, con immutata fiducia, a Dio, a quell’«amore che ci ama». Su un altro versante, tutt’altro che in rapporto diretto con l’assoluto, ma comunque sempre ancorato al tema di fondo di una propensione al culto manifestata dalle pellicole in concorso al Lido, «The Master», ispirato alla figura di Ron Hubbard, il fondatore di Scientology (la celebre setta che dice di vantare, nel mondo, 8 milioni di aderenti) ha suscitato meritatamente l’applauso della critica internazionale. Il nuovo film di Paul Thomas Anderson è un ritratto potente e visionario dell’America arrivista degli anni 50, affamata di miti e bisognosa di proselitismo. Ulteriore tassello di uno straordinario mosaico sulle oscure fondamenta di una nazione, «The Master», come «Magnolia» e «Il petroliere», i lavori precedenti del regista statunitense, attraverso la storia di un reduce della Seconda guerra mondiale, vagabondo, alcolista, seguace della setta creata da un carismatico guru e pupillo del fondatore, non nasconde le ferite di un passato che brucia, collocando sotto i riflettori ancora e sempre individui fragili in cerca di redenzione e uomini avidi bigger than life. Sospeso tra verità e menzogna, equilibrio e follia, realtà e sogno, «The Master» stringe il racconto sul rapporto di dipendenza reciproca che si instaura tra il maturo capo della setta (scrittore, dottore, fisico nucleare, filosofo teoretico, «ma innanzitutto un uomo», come dice egli stesso) e il giovane, sbandato allievo, offrendo, grazie alle interpretazioni di Philip Seymour Hoffman e di Joaquin Phoenix, momenti di purissimo cinema. Un padre poco amato dal vero figlio, che lo giudica un abile impostore, e un figlio acquisito senza più famiglia originaria: su questa polarità genitoriale, che già attribuiva spessore a «Magnolia» e «Il petroliere», la pellicola di Anderson trova una densità narrativa rara nel cinema contemporaneo. Sproloquiando alla rinfusa di fantascienza, alieni, complotti, reincarnazioni, spirito e anima, manipolando le coscienze di adepti adoranti e facendo tacere, anche con la violenza, le voci più critiche, «The Master» scava a fondo non tanto nel fanatismo pseudo-religioso quanto, piuttosto nei meccanismi psicologici che rendono gli esseri umani alleati e nemici, complici e traditori. Un percorso esistenziale scandito da sequenze memorabili e dialoghi esemplari, in un film girato, come i capolavori di un tempo, in 70 millimetri. Anche «Paradise: faith» di Ulrich Seidl, secondo capitolo, dopo «Paradise: love» (presentato a Cannes), di una trilogia sulla felicità, intende affrontare il rapporto con il divino, ma l’osservazione del regista austriaco non vuole andare oltre il compito provocatorio, talvolta compiaciuto, che si è assegnato, rivolto alla raffigurazione di una società disturbata e fragile incarnata in un personaggio già corroso in partenza da un’ossessione, appunto quella religiosa: una donna di cinquant’anni, fervente cattolica, che d’estate va di casa in casa con una statuetta della Madonna invitando gli inquilini a respingere con forza ogni occasione di peccato. Il rapporto con la religione e coi suoi simboli, a cominciare dal crocifisso, nel film di Seidl è del tutto pretestuoso, così come il fatto che il marito della donna, che un giorno rientra a casa dopo una lunga assenza, sia musulmano e disabile. L’approccio alla fede, perché di questo dovrebbe parlare «Paradise: faith», fin dal titolo, è davvero riduttivo, condensato in un’ottusa devozione amplificata ulteriormente da un’ironia di grana grossa che, con evidente astuzia, punta a stabilire il contatto empatico con lo spettatore. Niente a che vedere, insomma, con un altro film austriaco, «Lourdes» di Jessica Hausner, che sempre a Venezia, due anni fa, aveva affrontato il rapporto con il mistero con ben altra sensibilità. Dubitando del sacro, ma senza deriderlo. Paolo Perrone
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