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Sguardi sul Novecento da Casorati a GuttusoLa mostra «Sguardi sul Novecento, collezionismo privato tra gusto e tendenza» aperta fino al 30 settembre a Bordighera nelle stanze e nei saloni della prestigiosa Villa Regina Margherita della Fondazione famiglia Terruzzi è una sorta di museo nel museo perché affianca alle opere della fondazione, una scelta di 55 opere, tra quadri e sculture di 25 artisti italiani e 8 europei. E’ una mostra singolare, perché non raggruppa le opere per tematiche o per correnti, ma per singolo artista, per cui permette allo spettatore di percepire l’evoluzione della creazione artistica in ciascun autore, che mai resta chiuso nei limiti di una corrente e la pluralità dei suoi interessi: ritratto, paesaggio, natura morta. Così Gino Severini è presente con opere del periodo divisionista e futurista, e si possono confrontare fra loro le nature morte di Filippo De Pisis puramente descrittive con quelle di Giorgio Morandi decisamente metafisiche. Un interessante confronto, che solo in questa mostra è possibile ammirare, riguarda il ritratto dell’industriale biellese Riccardo Gualino. Il primo del 1922 di Felice Casorati, solidamente costruito, giocato sulle masse di colore, illuminate da una luce violenta, che blocca il personaggio, il secondo del 1938 dai colori morbidi e tenui, dai tratti sfumati, ricco di poesia, fatto dalla moglie Cesarina Gualino. In questa galleria mi posso soffermare solo su alcuni protagonisti. I quadri di Renato Guttuso, dal 1947 al 1966, documentano la sua dipendenza da Picasso, ma anche il suo bisogno di realismo, come lui stesso riconosce: «Feci verso il '47 una pittura più decisamente cubista e con stesure di colore largo e piatto, anche se cercavo sempre un rigore espressivo, una accentuazione più sulle cose che sulle forme». Le tele di Giorgio De Chirico alludono sempre, sia pure in modo laico, al mistero, dalle «Piazze d’Italia» invase da una luce tagliente, che isola in uno spazio senza tempo le architetture, ai «manichini» costruiti con architetture di forme geometriche varie, che, anche se hanno un nome, «Andromaca» è quello presente in mostra, restano sempre degli enigmi. Antonio Ligabue, un artista psichicamente malato, ma che si libera dalla solitudine e dalla malattia grazie alla sua arte naif, è presente con un autoritratto e con diversi paesaggi, nei quali campeggiano animali, quasi sempre in primissimo piano, senza alcun bisogno di prospettiva ambientale. Il catalogo così lo presenta: «La sua follia, il suo senso diverso della vita, è un tutt'uno inscindibile con la sua pittura, selvaggia, imprevedibile, estraniata dal mondo reale e popolata da un bestiario infinito e magico che abita più nella sua mente che nell'universo tangibile». Anche Campigli, Morlotti, Rosai, Sironi, Tosi, per ricordarne alcuni sono presenti in mostra. In questo susseguirsi di figure colpiscono le tre opere di Lucio Fontana che in certo senso stanno tra la pittura e la scultura, perche i tagli e i buchi di Fontana, come, in maniera diversa gli strappi di Burri, incidendo la tela giocano anche in profondità. Si tratta di tre quadri degli anni 1966-1968 che l’artista titola «Concetti spaziali. Attese» che si differenziano solo per i numeri dei tagli e per il diverso colore della tela, comunque uniformemente steso sull’intera superficie quadrata. Su questo modo di fare arte Fontana ha scritto diversi «Manifesti». In quello del 1950 si legge: «L'Artista Spaziale non impone più allo spettatore un tema figurativo, ma lo pone nella condizione di crearselo da sé, attraverso la sua fantasia e le emozioni che riceve e nell'umanità è in formazione una nuova coscienza, tanto che non occorre più rappresentare un uomo, una casa, o la natura, ma creare con la propria fantasia le sensazioni spaziali». Mi soffermo su tre scultori. Del trevigiano Arturo Martini (1889-1947) troviamo tre opere, ricordo il bronzo «Giustizia corporativa» del 1937 per il Palazzo di Giustizia di Milano, che già per il tema “giustizia corporativa” rimanda alla ideologia fascista. Ma lo stesso movimento Novecento, sostenuto da Margherita Scarfatti, autrice di un biografia del Duce, pubblicata da Mondadori (17 edizioni), è più o meno compromesso con il regime. A prescindere da questi condizionamenti politici, che molti dovettero subire, ma furono temporanei - la Scarfatti di famiglia ebrea, a causa delle leggi razziali, dovette riparare in Sudamerica - la scultura di Martini supera il naturalismo dell’Ottocento, evita l’impressionismo e recupera la monumentalità dell’arte antica. La mostra presenta poche opere per ciascun artista, ma di grande interesse, come la scultura in marmo e bronzo dorato del milanese Adolfo Wildt (1868-1933) dal titolo scritto in lastra «La concezione»; dunque non una maternità, che il catalogo interpreta in chiave psicoanalista. «Il tema arcano della nascita viene qui elaborato da Wildt come un inquietante sogno freudiano, dove il Neonato, esageratamente scarno e allungato, fluttua nel vuoto sospeso tra mistero, realtà e magia. La sua figura dorata, con i pugnetti stretti stretti, serrati sugli occhi, pare voler rifiutare il mondo e ogni suo dramma esistenziale, e diviene archetipo di timore e sconcerto di fronte a enigmi universali. Dietro a lui, la Madre e il Creatore fanno da controcanto, in un dialogo sintattico perfetto. Il volto maschile, memore di tante teste dolenti che popolano il vocabolario dell'artista, spalanca la bocca in un urlo, stupisce, ammira, abbassa le palpebre e ammutolisce: di contro, la Madre ha in sé tutta la ieratica bellezza di un'apparizione mistica; donna-Madonna, la cui levigatezza colloquia e si intreccia con il candore del marmo, è uno dei volti indimenticabili dell'arte del Novecento. Rassicura e inquieta al tempo stesso, elemento alieno che protegge e prega, ma serra gli occhi nella sua totale astrazione». Non so se Wildt abbia studiato Freud, ma dissento da questa interpretazione, sia perché non c’è solo l’inconscio subconscio, carnale, ma, come insegna Platone, anche l’inconscio sovraconscio, spirituale, sia perché non si tratta una «maternità» qualunque, bensì della «concezione» del Verbo che si incarna in Maria, tanto che il bambino è in oro, segno della preziosità della Vita; le mani giunte della Vergine rappresentano il grembo in cui l’Eternità si è calata nel tempo. Di qui il raccoglimento della Madre e lo stupore del Padre davanti al Mistero. Di Giacomo Manzu (1908-1991), forse il più grande scultore del Novecento, che ha saputo attraversare il secolo senza essere condizionato e sostenuto da qualche gruppo, troviamo una terracotta «Annunciazione» del 1948, di cui in catalogo si trova anche il disegno preparatorio. L’opera ha un’impostazione molto originale, ridotta alle due figure che occupano tutto lo spazio scenico: Maria dal volto preoccupato, che quasi si ritrae, e l’Angelo, molto sicuro della sua missione, che delicatamente accarezza il volto di Maria. Nella storia dell’arte è l’unica immagine dell’«Annunciazione» che esprima la tenerezza di una carezza. Quest’opera si richiama ai modi espressivi della decorazione della cappella dell’Università Cattolica dove Manzù nel 1931 ha posizionato ai lati, di fronte, san Giuseppe e Maria entrambi con il bimbo Gesù in braccio. Il catalogo edito a Milano da Skira, a cura di Annalisa Scarpa, con un saggio introduttivo di Gabriella Belli, che riporta tutte le opere, artista per artista, conferma l’impostazione della mostra che non vuole individuare le diverse correnti e movimenti presenti in Italia e in Europa nel Novecento, quanto presentare la personalità del singolo artista. Le opere di sette artisti stranieri sono raccolte in un’appendice con una breve presentazione che ne documenta il loro arrivo in Italia, ma permettono un confronto diretto con gli italiani, molto interessante il parallelo tra i tagli di Lucio Fontana e le composizioni di Hans Hartung. Piero Viotto
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