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Ilva: troppe responsabilità
Quello che sta succedendo all’Ilva di Taranto è la storia di irresponsabilità collettive, da sempre tollerate, che ora rischiano di scaricarsi sull’ultimo anello della catena, ossia i dipendenti del siderurgico, i quali potrebbero rischiare anche il posto di lavoro. L’evenienza è da tutti scongiurata, se non si corre in fretta ai ripari. La preoccupazione in città è grande e alimenta un clima di tensione. Persino l’arcivescovo, mons. Filippo Santoro, aveva invocato «senso di responsabilità nella direzione del bene comune perché sarebbe irreparabile un’improvvisa disoccupazione di massa». La situazione è grave e purtroppo è toccato alla magistratura dire come stanno le cose. In realtà, i magistrati non hanno fatto altro che confermare quello che in città si sa da anni, e cioè che il siderurgico più grande d’Europa è fonte di lavoro e di ricchezza per migliaia di famiglie e, allo stesso tempo, di malattie e di morte. Bastava andare tra le corsie degli ospedali, ascoltare le drammatiche denunce dei medici, contare i casi di tumore o asciugare le lacrime di molte mamme per le gravi malattie dei loro bimbi. Bastava andare al rione Tamburi, a ridosso dell’acciaieria, per rendersi conto che il siderurgico entrava in casa con un sottile e impalpabile velo di polvere che si posava ovunque, penetrando nei polmoni e violando l’ambiente più sacro e intimo della vita. Lo avevano raccontato e scritto i bambini della scuola elementare «Rodari» al presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola. Il colore rosso mattone, simile al sangue raggrumato, è il biglietto da visita di una città intensamente inquinata e pericolosa per la salute dei cittadini. La magistratura inquirente non ha fatto altro che trasformare tutto questo in cifre, in dati e in ipotesi di reato ben precise: disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose, inquinamento atmosferico, e ha chiesto l’arresto di sei dirigenti e dei proprietari dell’Ilva. In altre parole, la fabbrica ha inquinato e ha ucciso. Negli ultimi sette anni, secondo le perizie, almeno 174 morti sono da porsi in relazione con l’inquinamento. La maggior parte nei rioni Tamburi e Borgo. Mai, in precedenza, era stato identificato un nesso così stringente e drammatico tra causa ed effetto. La logica del profitto è prevalsa sulla salute dei cittadini. Lo ha detto senza mezzi termini il gip di Taranto, Patrizia Todisco. «Non si può più consentire al siderurgico tarantino del gruppo Riva di sottrarsi al dovere di anteporre alla logica del profitto, sino ad oggi così spregiudicatamente e cinicamente seguita, il rispetto della salute e della salubrità dell’ambiente», ha scritto nell’ordinanza di sequestro dello stabilimento. I ricorsi al tribunale del riesame che ne sono seguiti non hanno mutato la situazione. Il riesame, infatti, ha respinto il ricorso dell’Ilva contro il decreto di sequestro confermando gli atti del gip e affidando agli ispettori nominati dal tribunale le scelte più adeguate per ridurre l’impatto della produzione sulla salute pubblica e sull’ambiente. Non è escluso che gli ispettori impongano la riduzione al minimo della produzione e che parte dell’impianto venga fermato in attesa dei correttivi per eliminare l’inquinamento. I giudici del riesame hanno parlato di «scelta deliberata di inquinare», di «persistenza nelle condotte delittuose, nonostante la consapevolezza della gravissima offensività per la comunità cittadina e i lavoratori». L’Ilva appartiene al gruppo Riva dal 1995. Da allora è stato fatto poco, non tutto quello che era necessario. Anche prima il siderurgico inquinava, ma non può essere una scusante. Per anni tutti hanno chiuso gli occhi, “accontentandosi” di tutelare il proprio senza curarsi degli altri, del bene pubblico, della città, dell’ambiente, delle future generazioni. I sindacati dei metalmeccanici hanno difeso esclusivamente il posto di lavoro. Secondo le ipotesi di reato non hanno neppure salvaguardato adeguatamente la salute dei lavoratori. L’agricoltura e la zootecnia nel raggio di venti chilometri dallo stabilimento sono stati letteralmente distrutti, così pure la miticoltura nel mar Piccolo, fiore all’occhiello della produzione marittima tarantina. Ogni giorno vanno al macero tonnellate di cozze non più idonee per l’alimentazione e capi di bestiame con le carni contaminate dalla diossina. Già negli anni Settanta gli ambientalisti avevano sollevato il problema dell’inquinamento, ma le loro proteste sono rimaste inascoltate se non addirittura derise dagli stessi dipendenti del siderurgico. La grande fabbrica ha sempre significato ricchezza, prosperità ed è sempre stata accettata dalla città in maniera acritica, guai a metterla in discussione. Quanto alla politica, non ha certo brillato per tutela della salute pubblica e per armonizzazione degli interessi in campo. L’omissione è quanto ha portato la situazione ambientale tarantina a diventare così drammatica, omissione da parte di chi avrebbe dovuto controllare e intervenire. Invece nessuno ha osato mettersi contro la grande fabbrica, neppure la Chiesa locale. Ne ha preso immediatamente atto il nuovo arcivescovo, mons. Filippo Santoro, che con inequivocabile determinazione ha rinunciato alle donazioni da parte dell’Ilva alla Chiesa di Taranto, «anche quelle per opere caritative e per la lunga fila di disoccupati e di indigenti che bussano quotidianamente alle porte della diocesi». Insomma, è mancato il dialogo ad ogni livello e il senso di responsabilità. Magari sarebbe stato un dialogo difficile, spigoloso, ma avrebbe permesso una valutazione più congrua e attenta dei problemi e una loro diversa gestione. «Se negli anni il rapporto tra fabbrica e città, lavoro e ambiente fosse stato gestito meglio», ha scritto il direttore del «Corriere del giorno», Luisa Campatelli, «a quest’ora, forse non ci sarebbero operai a presidiare le strade, magistrati chiamati a decidere come e quando intervenire di fronte agli agghiaccianti risultati di una perizia storica, vertici dell’Ilva dimissionari». Oggi tutti sono pronti al dialogo, persino la proprietà dell’Ilva. Ma è una resipiscenza un po’ tardiva, probabilmente finalizzata ad attenuare i danni. Nelle mani dei giudici c’è una storia inquietante e tragica del siderurgico e un futuro incerto e problematico dagli esiti non scontati. Ma c’è anche quel senso di civiltà e di responsabilità, di prudenza e di attenzione ai diritti in campo che altri avrebbero dovuto tutelare e non lo hanno fatto. Questi sono i veri responsabili della situazione tarantina. E non è detto che prima o poi la giustizia non tocchi anche loro. Pasquale Pellegrini
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