Una vita senza squilli

 

Il Man Booker Prize è un premio che va sempre tenuto d’occhio per capire che cosa sta succedendo nella letteratura in lingua inglese. L’edizione del 2011 è stata vinta dall’inglese Julian Barnes, 66 anni, con «Il senso di una fine», pubblicato in Italia da Einaudi. E ancora una volta dobbiamo riconoscere che i giurati del prestigioso riconoscimento hanno valutato con molta attenzione. L’opera di Julian Barnes è infatti un potente romanzo filosofico, una sorta di raffinatissimo giallo esistenziale, capace di appassionare toccando i grandi temi della vita.

A raccontarcene la storia è lo stesso protagonista, Tony Webster, un uomo che sta concludendo serenamente un’esistenza ordinaria, senza squilli, probabilmente anche un po’ noiosa e mediocre. Gli calzerebbe a pennello il titolo del celebre romanzo di Robert Musil, «L’uomo senza qualità». Tony si è laureato, ha trovato un impiego statale che gli assicura un relativo benessere, si è sposato, ha avuto una figlia, ha divorziato, restando peraltro in buoni rapporti con l’ex moglie… Sembra quasi che abbia consumato il suo tempo cercando di tenere sempre dritta la barra, di galleggiare, affinché nessun imprevisto, nessun dolore, nessuna decisione lo turbasse. Così finirebbe i suoi giorni, se non fosse che un giorno gli arriva una misteriosa eredità lasciatagli dalla madre di un’ex fidanzata, Veronica, che poi si era unita sentimentalmente ad Adrian, amico dei tempi del liceo, intelligenza sottile ed estrema che, al contrario di lui e dei suoi amici, prendeva di petto i problemi. L’evento inatteso si insinua lentamente nella sua coscienza: sforzandosi di capire perché la donna abbia lasciato proprio a lui quella strana eredità, e nel tentativo di appropriarsi del diario di Adrian che ne fa parte ma che Veronica rifiuta di consegnargli, innescherà un processo di rivisitazione della sua vita dagli effetti imprevedibili, pervenendo a rivelazioni sconvolgenti sul destino delle persone che aveva perso di vista e, ancora più profondamente, su se stesso.

A dire di più della trama, si rischia di svelare dettagli e particolari decisivi, guastando il piacere della lettura, perché «Il senso della fine», pur essendo indubbiamente un testo denso e ricco di spunti filosofici, si dipana comunque in una forma che appassiona e avvince il lettore. Proviamo allora a concentrarci sull’analisi dei significati di questo romanzo. Balza all’occhio anzitutto la questione del rapporto con il tempo e con il passato e le oscillazioni della memoria. Il protagonista dapprima fornisce una versione degli eventi della sua storia, poi, costretto dall’eredità a tornarci sopra, scopre, sorprendendo anzitutto se stesso, che le cose erano andate un po’ diversamente. Esemplare l’episodio della lettera che Tony aveva inviato a Veronica e ad Adrian, per rispondere alla richiesta del permesso di uscire con la ragazza da parte di quest’ultimo. Tony conserva il ricordo di una lettera pacata, equilibrata, in cui aveva saputo tenere a bada le sue emozioni e si era dimostrato quasi magnanimo con l’ex fidanzata e il vecchio amico. Quando Veronica, dopo una serie di incontri, gliela rimetterà sotto gli occhi, sarà costretto a rendersi conto che ben diverso era il tono che aveva usato: «Con quale frequenza raccontiamo la storia della nostra vita? Aggiustandola, migliorandola, applicandovi tagli strategici? E più avanti si va negli anni, meno corriamo il rischio che qualcuno intorno a noi ci possa contestare quella versione dei fatti, ricordandoci che la nostra vita non è la nostra vita, ma solo la storia che ne abbiamo raccontato. Agli altri, ma soprattutto a noi stessi».

L’altro nucleo tematico centrale è quello della responsabilità individuale, quindi della libertà di ciascuno di imprimere una direzione o un’altra alla sua vita, di compiere o meno un’azione. Adrian, in questo senso, incarna la volontà di essere protagonisti e padroni fino all’estremo del proprio destino (anche se “il senso della sua fine”, per parafrasare il titolo, come il lettore vedrà, è tutto da decifrare alla luce dei fatti di cui verremo a conoscenza in seguito all’impressionante serie di colpi di scena finali). Tony, al contrario, è l’uomo che si lascia vivere, che accetta tutto quel che gli capita, che si astiene dall’assumersi responsabilità, perché ciascuno di questi gesti implica impegno, dedizione, investimento, e quindi la possibilità di fallire e di soffrire. «Che ne sapevo io della vita, io che ero sempre vissuto con tanta cautela?», si chiederà il protagonista quando, finalmente, comincerà ad aprire gli occhi sulla realtà del suo passato, al di là delle mistificazioni della memoria, «che non avevo mai vinto né perso, ma avevo lasciato che la vita mi succedesse? Io che avevo avuto le ambizioni di tanti, ma che mi ero ben presto rassegnato a non vederle realizzate? Che avevo evitato il dolore e l’avevo chiamato attitudine alla sopravvivenza? Che avevo pagato conti e bollette, che ero rimasto in buoni rapporti con tutti il più a lungo possibile; io, per cui estasi e disperazione erano diventati da molto tempo giusto parole lette una volta nei libri? Uno i cui rimproveri a se stesso non lasciavamo mai il segno? Beh, c’era tutto questo su cui riflettere, mentre sperimentavo un genere di rimorso speciale: una sofferenza inflitta a chi aveva sempre creduto di sapersi sottrarre al dolore, e inflitta, alla fine, precisamente per quella ragione».

Un romanzo superbo, da leggere con calma, facendo proprie le riflessioni con cui Julian Barnes, attraverso il suo Tony Webster, scandaglia la vita di ognuno di noi.

Paolo Perazzolo



SIR | Avvenire.it | FISC

PRELUM Srl - P.I. 08056990016