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La "guerra" Washington-Bruxelles
Se da un lato l’ormai imminente pausa agostana sembrerebbe prestarsi bene ad un bilancio di non brevissimo periodo dell’operato del governo “tecnico”, dall’altro una valutazione risulta particolarmente difficile alla luce di uno scenario economico e finanziario internazionale che assume, sempre più chiaramente, i contorni di una vera e propria guerra finanziaria tra le maggiori aree economiche del pianeta. In tale contesto, i progressi per certi versi eccezionali degli ultimi otto mesi rischiano di venire, se non cancellati, almeno in buona parte trascurati. Non deve essere in alcun modo dimenticato che l’esecutivo Monti ha preso le redini del Paese in uno dei peggiori momenti della sua storia recente, paragonabile nel dopoguerra unicamente al terribile biennio 1992–1993, caratterizzato dalla maxi-svalutazione della lira e dal varo delle manovre correttive dei governi Amato e Ciampi, con i loro inevitabili e pesantissimi effetti recessivi. Alla fine dello scorso anno il ruolo dell’Italia nei maggiori consessi internazionali, e in primis in quello europeo, si era sostanzialmente azzerato e ciò, si badi bene, non tanto per le evidenti eccentricità del precedente capo dell’esecutivo, quanto piuttosto per l’impossibilità di por mano alle indispensabili riforme strutturali di fronte al veto di uno dei partiti della coalizione che sosteneva il governo e per l’attenzione spasmodica alle conseguenze in termini di consenso politico delle misure in oggetto. Berlusconi, in sostanza, era divenuto un problema non tanto per il gossip che ne sanzionava i comportamenti privati, quanto piuttosto per l’assoluta inazione del suo governo in un momento economicamente delicatissimo. In questo quadro il governo Monti, che per semplicità chiameremo “tecnico” ma che, come tutti gli esecutivi, deve comunque andare a guadagnarsi in Parlamento l’approvazione delle proprie misure, è riuscito in pochi mesi a condurre in porto due provvedimenti che il Paese aspettava da decenni, conquistandosi un posto che nessuno potrà negare nella storia recente del nostro Paese. Dopo un ventennio di interventi utili, ma sempre parziali, dopo ciascuno dei quali il commentatore era obbligato ad avvertire che sul problema si sarebbe dovuti tornare, la riforma Fornero-Monti del sistema previdenziale ha chiuso l’incresciosa vicenda. Ovviamente si sarebbe potuto procedere anche in altri modi, ma l’innalzamento dell’età pensionabile e il suo collegamento con la speranza di vita erano decisioni inevitabili per stabilizzare il sistema. Il problema dei cosiddetti «esodati», per i quali il ministro Fornero ha ricevuto così tante critiche, riceverà una sua adeguata soluzione, ma non bisogna dimenticare che rappresenta l’eredità di un sistema in cui l’aggiustamento tra le parti sociali veniva garantito ponendone gli oneri a carico della fiscalità generale, ossia di tutti noi: in questo consistono infatti i pensionamenti anticipati di infausta memoria. Contestualmente, con la riforma del mercato del lavoro, il governo ha posto mano a una questione che si trascinava da oltre trent’anni, ossia da quando le crisi petrolifere degli anni Settanta prima, e il processo di globalizzazione competitiva dopo, rivelarono l’insostenibilità di un sistema che conduceva a congelare la struttura del sistema delle imprese, soprattutto quelle di più grandi dimensioni e maggiormente esposte alla concorrenza internazionale, attraverso una difesa ad oltranza del posto di lavoro anche contro qualsiasi logica economica. «Una boiata», questa riforma, secondo il neopresidente di Confindustria Squinzi, che riflette gli interessi di quella piccola e media impresa che era già esclusa dagli obblighi dello Statuto dei lavoratori, e che evidentemente auspicherebbe il ritorno ad un sistema in cui i problemi delle imprese e del lavoro possano essere tamponati scaricandone gli oneri sulla collettività. Anche in questo caso, la riforma del lavoro poteva essere costruita in modo diverso, ma almeno è stata fatta, e nessun governo prima di quello di Monti ne era stato in grado, tra i veti incrociati dei partiti e delle parti sociali. Si dice poi, soprattutto da parte dei critici più accaniti (ancora una volta Squinzi, in una consonanza rivelatrice con Susanna Camusso e la Cgil) che il governo Monti avrebbe fatto ben poco per la crescita. Se con questo si intende che non sono state attuate politiche di spesa di breve termine di tipo tradizionale ciò è indubbiamente vero, ma nessuno poteva ragionevolmente attenderselo da un governo la cui mission è incentrata totalmente sulla stabilizzazione della finanza pubblica e sulle riforme strutturali. Se c’è un ambito in cui a buon diritto si può affermare che Monti poteva fare di più, è quello della liberalizzazione dei servizi e dell’abbattimento delle barriere alla competizione, ma qui il governo “tecnico” si è dovuto scontrare con l’influenza delle varie lobby che condizionano pesantemente il voto parlamentare cui i diversi provvedimenti di legge sono inevitabilmente sottoposti. E inoltre deve essere chiaro che una più incisiva azione su tale fronte avrebbe quasi certamente provocato, nel breve termine, una perdita di posti di lavoro, pur creando condizioni più favorevoli alla crescita nel lungo periodo. Ma, come si diceva in apertura, tutti questi elementi positivi rischiano di essere dimenticati di fronte agli effetti di un conflitto finanziario globale che vede ormai chiaramente gli Usa impegnati nel tentativo di indebolire quanto più possibile l’esperienza della moneta unica per depotenziare quello che potrebbe diventare nel tempo un pericoloso concorrente del dollaro. Usciti malconci dalla crisi finanziaria del 2008–2009 e impegnati a coprire il maggior debito pubblico e privato del mondo, gli Usa hanno bisogno che la loro moneta sia ancora percepita come un rifugio sicuro e che i titoli del loro debito siano acquistati a tassi particolarmente bassi, specie dagli investitori dei Paesi produttori di petrolio e da quelli delle economie emergenti dell’Asia e dell’America Latina; accentuare la crisi dell’Eurozona va chiaramente in tale direzione. Negli ultimi giorni si è raggiunto il culmine di una strategia che sembra utilizzare l’Italia come grimaldello per scardinare il sistema della moneta unica europea. Prima il declassamento di Moody’s, difficilmente comprensibile nel merito ma soprattutto annunciato il giorno prima di una importante asta di titoli del debito pubblico italiano, e dopo ancora l’aggiornamento dell’Outlook del Fondo monetario internazionale (di cui gli Usa sono di gran lunga il maggior partecipante). In quest’ultimo, dopo aver lodato le misure correttive del nostro Paese, ci viene consigliato di fare uso quanto prima del fondo anti-spread (ben sapendo che quest’ultimo non potrà essere operativo prima dell’autunno, richiedendo il via libera della Corte costituzionale tedesca) ventilando la possibilità, mai finora neppure lontanamente concretizzatasi, che il mercato possa non essere più disponibile ad acquistare i titoli del debito sovrano della Repubblica. Come a dire che il Fmi non è convinto della nostra credibilità. Se questa non è guerra… Antonio Abate
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