Tagli universitari chi dovrà pagarli

 

L’inizio dell’estate ha visto coincidere temporalmente i match dei campionati europei di calcio e i match dei responsabili politici dei Paesi dell’Unione europea, e i giornalisti e i commentatori non si sono lasciati sfuggire, specie in Italia, Paese ricco di sportivi, sebbene principalmente pantofolai, di abbinare i risultati dei match politici di Bruxelles con quelli calcistici di Polonia e Ucraina.

Vittoria duplice dell’Italia sulla Germania: sul piano calcistico alla luce evidente dei palloni finiti nelle reti delle due squadre; sul piano politico, alla luce assai meno evidente di una supposta affermazione della linea politica sostenuta dal primo ministro italiano, Monti (in connessione con l’omologo spagnolo, Rajoy) rispetto a quella della cancelliera germanica Merkel.

Parallelismo inappropriato, poiché negli incontri di calcio le squadre si affrontano con fini competitivi (non nel senso latino di dirigersi assieme verso un obiettivo condiviso, ma nel senso traslato, di derivazione inglese, di essere in gara per acquisire la vittoria), mentre nelle decisioni politiche da prendersi a Bruxelles l’approccio dovrebbe essere di tipo concertativo, per il bene dell’Unione, ché se fosse di tipo competitivo, per il bene di uno o più Paesi a discapito di altri, parrebbe significare (ed è stato detto da molti commentatori) l’antitesi del concetto di unione.

In verità, in ogni comunità di persone è possibile, è normale che sorgano contrasti fra persone o fra gruppi di persone, in conseguenza di contrasti esistenti fra i loro desiderata, fra ciò che ritengono “buono” gli uni e ciò che ritengono “buono” gli altri; fra gli obbiettivi degli uni e gli obbiettivi degli altri. In effetti, la sana (etica) lotta politica consiste nel tentativo di condurre la comunità verso un determinato obbiettivo che risulti essere in contrasto con l’obbiettivo della controparte. Non invece nella contrapposizione di gruppi che hanno obbiettivi simili e che si contrappongono solamente perché vogliono acquisire potere di governo, emarginando altri gruppi di potere. Questa sarebbe solamente una lotta di potere senza contenuti etici.

Nella contrapposizione fra obbiettivi differenti è però essenziale che non ci si confonda fra obbiettivi finali e obbiettivi intermedi; fra obbiettivi e vincoli; che non si punti su vincoli/obbiettivi intermedi che ci allontanino dagli obbiettivi finali, le “cose buone”, realizzando le quali migliora il benessere economico della comunità.

Ora l’Unione economica e monetaria europea è stata concepita, agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, equivocando fra obbiettivi finali e obbiettivi intermedi/vincoli. I parametri di Maastricht sono chiaramente obbiettivi intermedi, poiché il bene comune non è ovviamente toccato dall’entità del rapporto fra deficit pubblico e Pil o dal rapporto fra debito pubblico e Pil né, con riferimento all’esperienza del recente passato prima della costituzione dell’Unione stessa, dall’uniformità dei tassi d’inflazione dei prezzi, dall’uniformità dei tassi d’interesse a lungo termine o dalla stabilità dei tassi di cambio fra le monete coinvolte nel progetto di moneta unica. Questi sono tutti obbiettivi intermedi per creare un ambiente finanziariamente equilibrato; a meno che non s’interpretino i primi due come reconditi obbiettivi di contenimento della presenza della pubblica amministrazione nel campo economico; anch’esso comunque obbiettivo intermedio, di stampo liberista, rispetto alla realizzazione del bene comune.

Il fondamento della questione è che i diciassette Paesi (ma non lo erano neanche gli undici iniziali nel 1999) dell’Uem europea non costituiscono un’area monetaria ottimale. Per rendersene conto, basti confrontare i Paesi dell’Uem con gli Stati Uniti d’America, che costituiscono anch’essi un’area monetaria. Anche se sono composti da cinquanta Stati, gli Usa hanno una popolazione che parla, in grandissima maggioranza, la stessa lingua; guarda gli stessi programmi televisivi e gli stessi film; ha la possibilità di spostarsi liberamente da una parte all’altra del Paese ed effettivamente lo fa; i beni si muovono senza ostacoli da uno Stato all’altro; i salari e i pezzi sono abbastanza flessibili; infine, il governo nazionale ha un gettito fiscale e una spesa pari a circa il doppio rispetto al complesso delle amministrazioni locali e dei singoli Stati. Le politiche fiscali sono diverse tra uno Stato e l’altro, ma possono essere annullate o contrastate in modo efficace dalla politica nazionale comune.

Sconvolgimenti inattesi possono benissimo abbattersi in misura maggiore su una parte degli Stati Uniti che sulle altre: si pensi, ad esempio, a come l’embargo del petrolio da parte dei Paesi del Medio Oriente, negli anni Settanta, abbia originato un aumento della domanda di manodopera e un miglioramento delle condizioni in alcuni Stati, il Texas ad esempio, mentre in altri Stati, come in quelli del Midwest industrializzato, costretti ad importare petrolio, sia stato causa di disoccupazione e di depressione. I diversi effetti nel breve periodo vennero abbastanza rapidamente mitigati da movimenti di merci e di persone, spostando i flussi finanziari dal governo nazionale alle amministrazioni locali e ai singoli stati e tramite l’adeguamento dei prezzi e dei salari.

Al contrario, l’Uem è composta da nazioni separate tra loro, i cui abitanti parlano lingue diverse, hanno abitudini diverse e la cui lealtà e senso di appartenenza nei confronti del loro Paese di origine supera l’idea di mercato comune o di Europa. Nonostante il suo carattere di area di libera scambio, i beni si muovono meno liberamente che negli Stati Uniti. La Commissione europea, con sede a Bruxelles, in realtà, spende solo una piccola parte rispetto a quanto speso, nel complesso, dai governi degli Stati membri. Sono questi ultimi gli organismi politici importanti, non le burocrazie dell’Unione europea. Inoltre, la politica fiscale e la politica industriale sono molto più differenti tra uno Stato europeo e l’altro di quanto lo sia tra uno Stato americano e l’altro. Conseguenza di tutto ciò è che differenze fra le strutture produttive, diversità nei gradi flessibilità dei prezzi, dei salari, del mercato del lavoro, nelle preferenze in tema di trade-off inflazione-disoccupazione esistenti fra i Paesi aderenti all’Unione possono generare notevoli costi o benefici che non possono essere contemperati che da potenti interventi di politica fiscale o industriale unitariamente modellata in modo riequilibrante.

Ora, gli accordi di fine giugno di Bruxelles non riguardano affatto l’impostazione di una politica fiscale o industriale comune fra le varie nazioni o la concentrazione delle stesse a livello di Uem, bensì mirano a correggere l’errore di valutazione delle potenzialità destabilizzanti che avrebbe potuto avere l’amplissima libertà dei movimenti finanziari internazionali introdotta all’inizio degli stessi anni Novanta, con l’approvazione con plauso dei medesimi costruttori dell’Uem. In quest’ultima non furono infatti contemplati adeguati meccanismi di controllo e di salvaguardia nei confronti degli effetti destabilizzanti della speculazione finanziaria internazionali anche perché non si poteva prevedere l’enorme dimensione che questa avrebbe poi assunto in conseguenza della grande liquidità creata dalla Fed statunitense dalla fine del secolo scorso, da questa e da altre banche centrali per salvare il sistema finanziario sconquassato dalla crisi finanziaria mondiale del 2007-2009 e, più di recente ancora, per cercare di far ripartire la domanda privata, non ricordando peraltro gli scarsi risultati ottenuti in Giappone con questo strumento nel decennio passato e il vecchio adagio secondo il quale la politica monetaria è assai efficace quando vuole frenare la domanda (“quando si vuole impedire al cavallo [dell’economia] di bere”), ma può essere completamente inefficace quando vuole spingere la domanda, quando le condizioni d’incertezza, di timore per il futuro non portano gli operatori ad abbeverarsi alle ampie disponibilità di credito esistenti a bassi tassi d’interesse (“quando si vuole spingere il cavallo a bere allorché questi non ne abbia voglia”).

Gli accordi di fine giugno di Bruxelles riguardano appunto la creazione di meccanismi di controllo e di vigilanza per eliminare gli effetti destabilizzanti della speculazione finanziaria, peraltro libera di muoversi senza costrizioni. Ma forse, più che preoccuparsi di evitare oscillazioni dei tassi d’interesse in modo divergente nei vari Paesi dell’Uem (lo spread), conseguenza di grossi spostamenti di capitali da e verso i diversi Paesi, occorrerebbe intervenire per ridurre la libertà della speculazione finanziaria, causa di questi spostamenti. D’altra parte perché, mentre si controlla che non vengano smerciati beni non conformi alle regole di sicurezza, di corretta conservazione, di applicazione di corrette clausole contrattuali, si lascia che circolino impunemente prodotti finanziari altamente tossici per la stabilità finanziaria?

Non si tratta d’interventi volti a creare una politica fiscale o una politica industriale o di una politica tout court, che è ciò di cui veramente manca, non solo la Uem, ma l’intera Ue. Si tratta d’intereventi di portata intermedia, rilevanti solo sul piano tecnico, assai distanti dagli obbiettivi veramente finali. Di questi si parlerà semmai in futuro, e sulla capacità dei governanti europei d’individuarli correttamente è da avere timore se, per alcuni, vale il seguente candore: «Esportiamo nell’Eurozona il 60 per cento dei nostri prodotti e non conosco altro modo per creare occupazione che non sia quello di fare prodotti e venderli» (equivocando fra ciò che è benessere, disponibilità di beni, e ciò che ne è solamente la premessa, la produzione); mentre per altri, per ridurre il debito pubblico, per far abbassare il “rischio Paese” e, con esso, i tassi d’interesse di mercato, al fine d’incentivare (forse) la domanda d’investimento, s’introducono pesanti “politiche di rigore quantitativo” che sicuramente fanno ridurre la domanda aggregata, creando crisi produttiva, disoccupazione, riduzione delle politiche di welfare, obbiettivi questi finali, o per lo meno più prossimi all’obbiettivo finale del bene comune. Daniele Ciravegna

 



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