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Camilla donna e scrittriceDi Camilla Salvago Raggi, delle sue case animate dai fiati di nobilissimi antenati, della sua passione per la lirica («Buio in sala», 1997) e per la domestica armonia degli anni di Campale, nel Monferrato, al fianco di Marcello Venturi, lo scrittore amico dei gatti e dell’etica quotidiana, pensavamo di conoscere ormai tutto. Era stata la sua religione della memoria, infatti, a voler riportare nel presente case e libri, personaggi che avevano varcato quelle soglie, avevano sfogliato quelle pagine e la rete di parentele che avevano congiunto due lignaggi genovesi, quelli dei Salvago e dei Raggi, appunto. Sotto «il noce di Cavour», del quale racconterà anche gli amori («Donna di passione», 2007), erano passati secoli di storie, lievi come le anime che continuavano a salire e scendere da scale celesti, per ripresentarsi poi nelle immagini che spesso corredavano i suoi romanzi. L’esordio di Camilla nella narrativa risale al 1960, con i racconti «La notte dei mascheri», ma il primo libro sulla lunga saga familiare uscirà sette anni dopo con il titolo «Dopo di me», come per affacciarsi nel futuro di una bibliografia che poggiava le basi sulle dimore, i feudi e il destino di marchesi di cui lei è l’unica discendente. La trilogia sulle dimore da salvare in un romanzo, Badia di Tiglieto («L’ultimo sole sul prato», 1982), Campale («Il noce di Cavour», 1988), Gattazzé («Prima del fuoco», 1992), è la testimonianza di un’identità che fonde uomini e cose, impregnate delle loro anime diventate libri. Per mezzo secolo Camilla ha parlato di loro, restando nell’ombra in punta di piedi e di penna, lasciando il chiacchiericcio familiare di «Paradiso bugiardo» (1975) nei confini del giardino della villa di San Remo, che aveva protetto la sua infanzia dalle «memorie improprie» (Maria Pacini Fazzi Editore, pp. 127, euro 14,00). Mezzo secolo di libri e di discrezione, di incontri e di silenzi, di titoli che hanno scandito il suo tempo come «l’orologio a palla, cristallo e cifre di smalto celeste, credo turchesi» dal quale non è mai riuscita a separarsi, perché potrebbe soffrire della sua assenza: «L’ora blu» (1995), «Castelvero» (2000), «La druda di famiglia» (2003), «La bella gente» (2004), «Un’estate ancora» e «Il magnifico Leonardo» (2006) «Prima o poi» (2009) e si potrebbe continuare con poesie, traduzioni, libri fotografici. Nell’ultimo romanzo, «Memorie improprie», il vento è mutato e, pur affondando nella storia di ambienti che per li rami paterni l’aveva posta sul vertice dell’aristocrazia genovese, rappresenta una sorta di risarcimento nei confronti di chi aveva sfidato rigidi protocolli dinastici per darle una vita, un nome e un’infanzia felice. È sarà proprio questa realtà segreta a generare in lei l’essenza di una creatività e di un temperamento che assomma nobiltà di censo e di cuore. Come per molti dei suoi precedenti libri, anche qui c’è l’archeologia degli antiqui e degli ampi spazi nei quali si muovevano, documentata da fragili carte vergate a mano e foto color seppia, ma la novità sta nel porre in primo piano una figura presente finora solo in sordina, come per sfumare nella reticenza il rischio di oscurarne l’immagine. Ed è quella di una madre bellissima a tenere ora il campo della memoria, «impropria» oggi come ieri solo per via di convenzioni ormai inghiottite dalla modernità: una donna che ha avuto il coraggio di infrangere le regole ferree degli stemmi e dei predicati, in nome di un’unione che solo un destino avverso poteva troncare. Era il tassello mancante delle sue memorie, quello che poteva illuminare le parole di Proust che spesso riaffioravano dalle sue labbra nelle interviste: «Scrivo perché mia madre non muoia», come non vorrei che morissero le case e gli oggetti talismano, impregnate d’ali e di piume che ormai risiedono altrove. Solo alla fine di questa storia, tracciata con la forza delicata della verità e della bellezza senza formule, si comprende il filo che tiene insieme la vita e l’opera di Camilla, che con questo nuovo libro approda alla verità, come nella «Gita al faro» di Virginia Woolf, sempre pronta a sfidare i benpensanti di allora e a sciogliere tutti i possibili contrasti che memorie improprie potrebbero generare. Dal tessuto di storie distanti nel tempo che ormai affollano la sua bibliografia, Camilla, con un vero e proprio coup de theatre, materializza così un nuovo genere romanzesco, una specie di fiaba che unisce antico e moderno, scandita da un ritmo narrativo che li tiene uniti come un ultimo, intimo abbraccio. Con l’arte della leggerezza che fa brillare anche il non detto e il registro espressivo dell’interiorità, che intreccia toni e tastiere, tempo e tempi, vite e opere («Una summa. Un riepilogo. Un résumé, fate voi»), Camilla testimonia che tout se tien e che la letteratura nasce da un seme messo a dimora nell’eterno presente. «Memorie improprie» è il germoglio di tutte le storie, il frutto di un libro solo cui mancava l’inizio, quello che attesta la vittoria di una guerra contro l’oblio. L’atmosfera fiabesca delle dimore disposte a mosaico nella sua narrativa si alimentava proprio da quel mondo in sordina, dall’humus di umanità e calore, dalla doppia faccia di destini che sfuggono ai pregiudizi. Alla stabilità di pietra dei castelli si contrappone, allora, l’odissea di perpetue migrazioni, traslochi, rifugi provvisori, colmi di altra grazia e dignità, «impropri» solo per norme imposte da quella regole taciute ma inviolabili. Anche questa, a distanza di tanti anni, dunque, può essere raccontata come la favola di una bambina protetta dall’amore totale dei genitori, ma destinata a scoprire presto la crudeltà dell’anagrafe, disposta per pura convenzione a lasciare tra i rami di una genealogia una cornice vuota. Riconoscere oggi che quell’inesistenza era stata il prezzo della sua felicità è il gesto d’amore più alto che un essere umano può compiere. In «Memorie improprie», infatti, la storia di quel volto è incorniciata in tutte le fogge, in tutte le tappe dell’ulissica esistenza di sua madre: l’epica di un primo matrimonio, della maternità, dell’abbandono nel fiore della giovinezza, dell’incontro con un “principe azzurro” che la salva dalla palude dei tradimenti, dell’amore che illumina la loro vita, del viaggio in un altro continente per convincere il marito a concederle il divorzio, della sconfitta e, infine, la disfatta e la morte del suo nobile sposo in pectore, che scioglie per sempre l’acronimo che brillava sulla prora dello yacht con il quale lui sfidava a vele spiegate il mare. Quando quel tenerissimo padre che le aveva dato con orgoglio il suo nome fu sconfitto da una setticemia, Camilla aveva solo dieci anni. Disegnava con “pitturini” colorati e vestiva le sue bambole, senza chiedersi il senso del vorticare di traslochi del prima e l’improvvisa apparizione di un nonno che, alla scomparsa del figlio, ’avrebbe poi separata per sempre dal prima. Camilla donna e scrittrice nasce da questa scelta amorosa, che oggi le permette di fondere poesia e documento, alternando i registri espressivi con una prosa che conserva il culto della penna e la grazia del ritmo narrativo, l’altezza e la semplicità di una vita vissuta per scrivere libri, come se fossero figli. Al marito Marcello e a «tutte le cose di cui abbiamo riso insieme», cose «improprie» e le loro possibili evoluzioni future, è dedicato questo libro, che si pone come specchio e riscatto dell’unione perfetta di genitori che avevano avuto il coraggio di sfidare con le loro scelte il mondo intero. Anche Camilla sfuggirà a nozze di convenienza (Ronald Reagan o Fabrizio Ruffo di Calabria o altri) e sposerà il figlio di un capostazione in divisa da ufficiale di marina, una delle menti più alte e luminose della nostra storia civile e letteraria, testimoniando con la sua stessa esistenza che il cuore ha quarti di nobiltà che valgono anche una vita impropria. Giovanna Ioli
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