Monti vince. E poi?

 

Per adesso, cioè per questi torridi giorni di metà luglio, Mario Monti è ancora uno che vince, nei rapporti con l’Unione europea. L’incontro di lunedi notte a Bruxelles fra i ministri delle Finanze dell’Eurogruppo (i 17 Paesi sui 27 dell’Ue che hanno adottato la moneta unica) a cui il nostro premier ha partecipato in qualità di ministro dell’Economia, si è chiuso all’alba con la conferma della decisione, presa dal Consiglio d’Europa a fine giugno, che sia la Banca centrale europea a farsi carico di controllare l’uso dello scudo antispread da parte dei fondi salva-Stati per l’acquisto dei bond sui mercati: era quanto chiedeva Monti con la massima decisione nelle scorse settimane, di fronte alle reticenze “rigoriste” della Cancelliera tedesca Angela Merkel e dei responsabili di alcuni Paesi come la Finlandia e l’Olanda.

Mentre anche la Spagna otteneva 30 miliardi di euro per cominciare a ricapitalizzare le sue banche in difficoltà dopo la spaventosa crisi dell’eccesso di mutui per l’edilizia senza solide garanzie. Se ne riparlerà comunque nella prossima riunione dell’Eurogruppo fissata per il 20 di questo mese.

Monti continua dunque a vincere, ma nulla è più lontano da questa immagine quando si osservano le cose non nella prospettiva comunitaria, ma in quella italiana. Qui è fin troppo facile immaginare perché: siamo un Paese a costituzione parlamentare, il premier attuale non dispone di una propria maggioranza ma la riceve da tre partiti fino a novembre scorso su fronti opposti, il Pdl, il Pd e l’Udc.

La conseguenza è che su ogni riforma proposta dal governo dei tecnici quei tre partiti si schierano in opposizione fra sé stessi. Si tratti di misure sul lavoro, sul fisco, sui servizi pubblici come la sanità, i trasporti, la giustizia, sulla spending review che tocca tutta l’organizzazione dello Stato, delle Regioni, delle Province, dei Comuni al fine di controllarne la spesa e metterne fine agli sprechi, il coro è unanime, anche se diviso al proprio interno.

Il grande problema è posto in termini diversi, ma è ben riconoscibile: come si possa salvare la finanza complessiva dello Stato e ridurne il deficit e il debito pubblico (cioè gli interessi dovuti a chi ha acquistato in passato Bot e altri titoli di Stato) senza tagliare i servizi ai cittadini, a cominciare da quelli relativi alla salute, da un ventennio affidati al Servizio sanitario nazionale.

Per ognuno di questi problemi le risposte da parte del governo e dei tecnici sembrano pacifiche: chiudere ospedalini di piccoli centri, così come tribunalini accorpabili e trasferibili in centri più grandi, ridurre il numero degli impiegati statali, e così via, appaiono soluzioni compatibili con la necessità di risparmiare denaro pubblico; ma sono inevitabili le proteste di chi, sul territorio, ne vede solo gli aspetti negativi, come ad esempio l’aumento delle distanze e del costo individuale dei relativi spostamenti.

Intendiamoci, non sono proteste immotivabili. Sul «Corriere della sera» di lunedì 9 luglio Giuseppe De Rita e Massimo Mucchetti offrono due ragionevoli illustrazioni di situazioni che meritano attenzione. Il fondatore del Censis difende «l’altro fronte dell’economia», cioè quella che risiede nei territori ed è destinata ad avere «sempre meno Comuni, meno Province, meno uffici postali, meno stazioni di carabinieri, forse meno imprese. E il deserto, come si sa, tende sempre a crescere se non ci sono adeguati presidi di vita».

L’economista Mucchetti, commentando la recente invettiva del neopresidente di Confindustria Squinzi contro il primo ministro, enumera cinque «identità di un’industria smarrita»: «Le piccole imprese, che vendono soprattutto in patria; le piccole e medie organizzate nei distretti industriali, che in parte esportano; le multinazionali tascabili; le poche grandi imprese private ormai proiettate nel mondo (come la Fiat, ndr); le pochissime grandi pubbliche, in parte globali e in parte legate a rendite di posizione domestiche» Di qui, «due Confindustrie: quella che si sente morire senza una rapida ripresa della domanda interna, e quella che ha altre risorse».

Di fronte a tutto questo, occorre che la politica ricominci a dare risposte per il futuro, di là dalla contingente necessità di sostenere l’azione esterna e interna del governo. Queste risposte spettano ovviamente ai partiti, ai quali i cittadini chiedono di darle senza ombre e senza troppi calcoli elettoralistici: non per nulla il presidente Napolitano ha ingiunto ai presidenti delle due Camere di dare inizio a un dibattito serio e costruttivo sulla riforma della legge elettorale, perché la scadenza della legislatura si avvicina e nella primavera del 2013 si dovrà votare.

Finora la risposta dei partiti è stata deludente, e non aiuta certo la discussione in corso, dentro e fuori di essi, su che cosa farà Monti: si candiderà a restare a Palazzo Chigi, magari con il concorso dei “moderati” e dei “progressisti” che non mancano in nessuno dei due fronti attuali, pro e contro di lui? Naturalmente tutto dipende da come finirà questo terribile 2012: con l’avvio di una ripresa della crescita, o con una recessione sempre più grave, in Italia, in Europa e anche nel mondo in emersione (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), come qualche entità economica internazionale comincia a sospettare.

Beppe Del Colle



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