![]() Accesso utente |
La Libia, dopo il voto col fiato sospesoDopo la conclusione della lunga e farraginosa procedura elettorale egiziana, dove le recenti presidenziali vinte dall’islamico moderato Morsi dovrebbero segnare l’inizio di un nuovo percorso non privo di incognite, i principali nodi scoperti del processo di assestamento e sviluppo delle cosiddette “primavere arabe” restano due: la Libia, dove si sono appena svolte le prime “libere elezioni” dopo decenni di regime, e la Siria, dove al contrario elezioni e processi democratici in genere appaiono una lontanissima chimera. La situazione in quest’ultimo Paese è sicuramente la più drammatica: gli scontri armati sono all’ordine del giorno, e il numero delle vittime, in stragrande maggioranza civili, continua tristemente a salire, mentre il regime non accenna minimamente ad ammorbidire la propria politica di feroce repressione. Il conflitto ha compiuto inoltre un ulteriore salto nel livello di criticità internazionale a causa dell’abbattimento (incidentale?) di un jet militare turco “reo” di aver violato lo spazio aereo di Damasco. La decisa e bellicosa reazione della Turchia non si è fatta attendere: il governo di Ankara, che dall’inizio del conflitto siriano subisce già una tensione notevole nella zona di frontiera a causa del flusso di profughi in fuga, ha immediatamente richiesto l’intervento della Nato, della quale è membro strategicamente assai rilevante, denunciando l’aggressione e invocando le clausole di difesa reciproca degli alleati. Il compattamento e le dure prese di posizione dell’Alleanza atlantica (che verosimilmente non aspettava altro che un simile casus belli) non si sono fatti attendere, costringendo persino la Russia, che fino a quel momento aveva incondizionatamente protetto il regime di Assad, a rimodulare la propria posizione, che oramai sostiene praticamente da sola, ora che la Cina, che già teneva un più basso profilo, appare ulteriormente defilata e, come sempre, attenta solo al proprio tornaconto economico, a prescindere da accordi diplomatici o considerazioni etiche. Di fatto, l’impressione è che questa nuova escalation sia destinata ad accelerare la resa dei conti, ma è impossibile fare previsioni sulle tempistiche e sulle modalità di intervento, anche se cresce ulteriormente il rischio che in Siria si ripeta quanto già avvenuto in Libia, dove la ribellione al regime di Gheddafi si è trasformata in una vera e propria guerra civile, con migliaia di vittime e imponenti devastazioni territoriali, e dove i postumi del conflitto sono assai lontani dall’essere sanati. Proprio la Libia è tornata sotto i riflettori nello scorso weekend, con lo svolgimento delle elezioni destinate a designare i 200 membri del nuovo Parlamento, che a sua volta dovrà poi esprimere l’esecutivo destinato a subentrare al Consiglio nazionale di transizione, l’organismo che regge (almeno nominalmente) il Paese dal momento del crollo del regime del Colonnello. Secondo le prime stime, si sarebbe recato alle urne circa il 60 per cento dei quasi tre milioni di cittadini aventi diritto, un’affluenza non oceanica, ma rispettabile, per una popolazione che non aveva mai avuto la possibilità di esprimere un proprio giudizio durante tutti i quarantadue anni di dittatura dell’istrionico e megalomane Muhammar Gheddafi. Tuttavia lo svolgimento della tornata elettorale, nonostante svariati appelli contro il boicottaggio e la presenza di un certo numero di osservatori internazionali tra cui quelli inviati dall’Ue, è stato caratterizzato da numerose irregolarità e da non pochi casi di violenze. Tra questi, particolarmente grave l’attacco con armi da fuoco a un elicottero che trasportava materiale elettorale nei pressi di Bengasi e che ha provocato una vittima, senza contare numerosi incendi e devastazioni di seggi. Quanto basta per far ritenere a molti osservatori che il rischio di una ripresa delle ostilità sia tutt’altro che remoto. Una considerazione basata su due dati di fatto incontrovertibili: la mancanza di controllo sul territorio da parte del governo provvisorio, che in quasi un anno di attività non è riuscito a disarmare e porre sotto controllo le milizie che tuttora imperversano e dettano legge in ampie zone del Paese, e il persistere delle stesse criticità che avevano innescato la ribellione contro il Colonnello, in particolare il contrasto fra le due anime principali della Libia, la Tripolitania e la Cirenaica, che vede le rivendicazioni di quest’ultima ancora in larga parte disattese. In particolare, brucia il fatto che dei 200 membri del nuovo Parlamento ben 100 verranno espressi dalla regione di Tripoli e solo 60 da quella controllata da Bengasi, oggi come un anno fa capofila delle proteste, mentre i restanti 40 sono appannaggio del Fezzan, l’area meridionale del Paese. Una suddivisione basata su criteri demografici, che rischia di penalizzare ancora una volta la regione orientale, che pure controlla gran parte delle risorse del Paese e sarebbe favorevole a un modello di governo di stampo federale, che le consenta di beneficiare maggiormente di tali ricchezze, attualmente capitalizzate invece dalla regione di Tripoli. Insomma, l’oggetto del contendere è ancora lì, e poco è cambiato nel dopo-Gheddafi. A ciò si aggiunge, come ricordato sopra, la preoccupante presenza di numerose milizie armate che controllano larghe porzioni di territorio, sulle quali il governo reggente non è stato assolutamente in grado di imporre la propria autorità. Un fattore che moltiplica esponenzialmente l’instabilità del Paese ed è fonte di numerosi episodi di soprusi e violenza diffusa. Lo denuncia con forza in particolare Amnesty International, autorevole organizzazione internazionale per la difesa dei diritti umani, in un rapporto pubblicato proprio a ridosso delle elezioni, frutto di una missione di monitoraggio e indagine svolta nei mesi di maggio e giugno su gran parte del territorio libico: «In Libia rischieranno di ripetersi le stesse violazioni dei diritti umani che diedero vita alla "rivoluzione del 17 febbraio", se chi vincerà le elezioni previste in settimana [il rapporto è stato presentato il 5 luglio, ndr] non porrà in cima alle priorità il primato della legge e il rispetto dei diritti umani». Nel comunicato si sottolinea inoltre come «trascorso poco meno di un anno dalla caduta di Tripoli nelle mani dei thuwwar (i combattenti rivoluzionari), le continue violazioni dei diritti umani, tra cui arresti e imprigionamenti arbitrari, torture con conseguenze anche mortali, omicidi illegali e sfollamenti forzati di popolazioni eseguiti con impunità, stanno gettando un'ombra negativa sulle prime elezioni nazionali dalla caduta del regime di Muhammar Gheddafi». L’organizzazione evidenzia che, secondo i dati forniti dallo stesso governo, sulle centinaia di milizie presenti solo quattro sono state disciolte, un numero esiguo e risibile. Al contrario, in molte zone del Paese esse dettano ancora legge in modo arbitrario, incontrollato e feroce, provocando vittime e tensione e in certo qual modo perpetuando quel «sistema di violazioni dei diritti umani» in uso sotto la dittatura precedente. Amnesty ritiene che almeno 4 mila persone siano detenute al di fuori del controllo delle autorità centrali, e che molte di esse siano sottoposte a maltrattamenti e tortura, come si è potuto constatare nei centri di detenzione ai quali l’organizzazione ha potuto accedere. A questo si aggiungono violenze su base tribale ed etnica, che a volte arrivano a provocare lo sfollamento forzato di intere comunità, e la situazione potrebbe ulteriormente degenerare a causa della sottovalutazione delle autorità centrali, che al contrario a maggio hanno addirittura emanato una legge «che garantisce immunità dai procedimenti giudiziari ai thuwwar per le azioni di natura civile e militare commesse "allo scopo di favorire il successo o proteggere la rivoluzione del 17 febbraio"». Per disinnescare questi focolai di tensione e contribuire al processo di pacificazione, subito dopo le elezioni Amnesty chiederà al Parlamento eletto e al nuovo esecutivo di condannare inequivocabilmente le violenze e perseguire gli abusi commessi. Riccardo Graziano
|