La Spagna sta pagando un'edilizia eccessiva

 

«La Spagna, come si sa, vive una gravissima crisi economica. Il nostro sistema creditizio si è inceppato, i conti pubblici si sono deteriorati, la disoccupazione è cresciuta a livelli insostenibili. Per di più, tra la gente comincia a farsi strada, e forse è anche inevitabile che ciò accada, una sfiducia generalizzata sulle prospettive future, terreno fertile per quei germi dell’antipolitica e del populismo, sempre pronti a farsi avanti nei momenti di crisi».

A dirlo è Vicens Villatoro, politologo spagnolo, anzi catalano (come tiene sempre a sottolineare), che abbiamo interpellato per disporre di alcune riflessioni in presa diretta su quanto sta avvenendo oltre i Pirenei. Per ora il prestito europeo di 100 miliardi alle banche non pare aver rimesso in movimento flussi di capitale tali da rivitalizzare il mondo produttivo e adesso tocca alla politica individuare altri strumenti. Il problema, sostiene Villatoro, è che il governo «pur disponendo di un’ampia maggioranza parlamentare pare in seria difficoltà nel seguire una rotta credibile». Forse proprio la scarsa nitidezza programmatica che ha consentito a Rajoy di vincere le elezioni, evitando di parlare delle scelte più difficili, si sta rivelando un boomerang che mette a nudo la sostanziale debolezza del suo progetto politico.

Per le attuali difficoltà economiche vi è qualche responsabilità dei precedenti governi?

Eccome. Ci sono responsabilità sia del governo socialista con Zapatero che dell’ultimo esecutivo di destra, a guida Aznar. Entrambi hanno infatti creduto che per una crescita equilibrata e duratura potesse bastare il traino dell’edilizia. Addirittura si era giunti a pensare, colpevoli anche certi media, che il boom economico basato sull’immobiliare potesse generare un inarrestabile incremento di Pil addirittura tale da permettere alla Spagna di superare Paesi di più antica industrializzazione come Italia e Francia. Evidentemente è stata un’illusione. Oltretutto Zapatero ha sottovalutato il peggioramento della congiuntura economica, quasi negando l’esistenza stessa della crisi, senza adottare le necessarie misure di rigore quando già cominciavano ad intravedersi chiari indizi di recessione. E questa reazione tardiva ha finito per aggravare ancor di più la situazione.

Quale è il suo giudizio sull’azione dell’attuale governo Rajoy?

I popolari si sono presentati agli elettori come l’alternativa politica al Psoe, un’alternativa basata sull’efficacia e sulla competenza. In realtà a sei mesi dal suo insediamento il governo Rajoy mostra evidenti limiti. A monte c’è un problema politico connesso al premier stesso.

In che senso?

Il fatto è che Rajoy non dispone dell’appoggio incondizionato di tutto il suo partito. I settori più conservatori del Pp lo considerano privo della capacità di esercitare una leadership forte, tanto sulle questioni economiche che su quelle istituzionali, soprattutto riguardo ai rapporti tra lo Stato e le comunità autonome. L’ala destra del partito ha nostalgia dello stile decisionista di Aznar e sopporta a fatica la cautela e la moderazione di Rajoy. Va peraltro detto che il programma di riforme imbastito dal governo non si è rivelato all’altezza delle sfide che gli stanno davanti. Come se non bastasse, si è perso tempo prezioso per mero calcolo politico.

Si spieghi meglio...

In primavera c’erano le elezioni regionali in Andalusia e il governo, visto che il Pp era da mesi in testa nei sondaggi, ha rinviato a dopo la tornata elettorale alcuni provvedimenti, impopolari ma necessari per il bilancio pubblico, che andavano invece presi ad inizio anno. Un trucchetto inutile poichè le elezioni andaluse comunque hanno ridimensionato i disegni del Pp, che mirava ad assicurarsi la guida della regione, da sempre feudo socialista.

Quali, a suo parere, le riforme necessarie per riavviare lo sviluppo?

Sicuramente c’è da contenere la spesa pubblica con politiche di rigore. Il risanamento dei conti pubblici è il presupposto della crescita e non qualcosa che vi si contrappone. Nello stesso tempo occorre però occorre rilanciare il tessuto industriale, soprattutto quello rivolto verso le esportazioni, a dispetto della vecchia, e deleteria, concezione volta unicamente a favorire il comparto delle costruzioni. Indubbiamente, per accrescere la nostra competitività, era necessaria la riforma della legislazione sul lavoro, però adesso bisogna intervenire sul settore bancario, su quello dell’energia e dare il via a nuove infrastrutture. Va infine svolta una complessiva riflessione sulla nostra articolazione istituzionale. Come catalano ho la sensazione che le politiche centraliste e livellatrici dello Stato stiano impedendo che una zona industriale come la Catalogna possa divenire la locomotiva dell’economia iberica.

Come andrebbe rivisto il rapporto lo Stato e le autonomie regionali?

L’attuale assetto vede una notevole uniformità tra le diverse regioni o comunità autonome. Le nazionalita storiche, quella basca e quella catalana, godono più o meno delle stesse competenze delle altre comunità. Per molti versi questo assetto è nato per diluire, nell’insieme di tutte le autonomie regionali, alcune rivendicazioni politiche della Catalogna e dei Paesi baschi. Dopo più di tre decenni di democrazia le diversità catalana e basca persistono, e oggi siamo di fronte ad un modello regionalista costoso e scarsamente efficace. Si tratta di tornare alle origini e porsi seriamente la questione catalana e basca. Personalmente, come catalano, penso che sarà utile e necessario l’esercizio libero e democratico del diritto all’autodeterminazione. In ogni caso è imprescindibile cambiare il rapporto fiscale tra la Catalogna e il resto del Paese, poichè è eccessivo lo scarto tra ciò che la nostra comunità produce e ciò che riceve dallo Stato. Il risultato è una generale perdita di forza e di competitività dell’economia catalana.

C’è una spesa sanitaria fuori controllo. Cosa dovrebbero fare le comunità autonome, visto che la materia è di loro competenza?

Credo che una possibile strada sia la compartecipazione dei costi da parte dei cittadini, almeno sino ad un livello minimale di spesa. Non si tratta, ovviamente, di privatizzare la sanità pubblica e universale, che è una conquista per tutti i cittadini, ma di impedire che un’assoluta e incontrollata gratuità renda insostenibile il sistema.

Parliamo di Europa. E’ favorevole ad un rafforzamento delle istituzioni comunitarie?

Il rafforzamento dell’Unione è un strada obbligata se l’Europa vuole continuare a contare sullo scacchiere mondiale. In prospettiva è indispensabile accrescere quindi la legittimità democratica delle istituzioni europee e nel breve periodo occorre giungere ad un migliore e più efficace coordinamento delle politiche economiche e fiscali dei diversi Stati.

In definitiva, come pensa che la Spagna uscirà da questa crisi?

Profondamente cambiata, nella sua mentalità, nella sua struttura economica e nei suoi assetti politici. Nei momenti di maggior ottimismo immagino che ciò avverrà attraverso una maggior integrazione europea e un ampliamento dei diritti dei cittadini e delle comunità autonome. Quando invece sono meno ottimista temo un aumento di tensioni sociali e territoriali e soprattutto il sorgere di una pericolosa antipolitica, demagogica e populista. In quel caso tornerà a farsi sentire il vecchio centralismo antieuropeísta che, per troppi anni, ha tenuto la Spagna al di fuori dalle grandi trasformazioni europee.

Aldo Novellini



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