![]() Accesso utente |
Ecco perchè la crescita non ce la fa
Nel clima concitato di questi giorni, nei quali si dibatte sulla pretesa contrapposizione tra rigore nei conti pubblici e crescita, si rischia di non rendersi conto che questa seconda non può derivare, nell’immediato, da un semplice allentamento del primo. Anche nella dichiarazioni di molti politici, attenti soprattutto ad immagazzinare voti per la futura tornata elettorale, sembra vigere la convinzione secondo la quale basta immettere risorse finanziarie nel sistema economico perché possa partire un processo di sviluppo. Nessun dubbio sul fatto che risorse debbano essere introdotte, ma ciò deve avvenire senza aggravare l’indebitamento del Paese che ha portato vicino ad un tracollo, difficile se non impossibile da superare. Sta in questa evidenza uno dei nodi di un’economia che avrebbe assai bisogno di una politica keynesiana, ma si trova nell’impossibilità di porla in essere nella misura auspicabile e necessaria. Al di là di questa considerazione, tutto sommato ovvia, occorre rendersi conto, accanto all’opportunità di disporre di risorse finanziarie, dell’esigenza di porre rimedio a gravi insufficienze strutturali maturate nel tempo e fortemente penalizzanti. Un sistema di trasporti carente, un’offerta energetica largamente dipendente dai combustibili fossili senza prospettive diverse per lo meno nel periodo medio, gravi complicanze di ordine burocratico allo svolgimento dell’attività produttiva, un apparato giudiziario farraginoso ed estremamente lento nell’emettere giudizi in sede civile e penale, apparati di telecomunicazioni ancora troppo lontani, in termini di diffusione ed efficienza, rispetto a quelli di Paesi con i quali ci si deve confrontare, sono alcuni tra gli ostacoli non superabili con la sola iniezione di denaro. Le conseguenze di questa situazione sono motivo di preoccupazione soprattutto perché gravano sulle componenti più deboli della società e in particolare sui giovani che non trovano occupazione e su quanti nelle more della crisi perdono il lavoro. I dati dell’appendice della Relazione della Banca d’Italia sono impietosi: tra il 2001 e il 2011 il tasso di attività tra la popolazione compresa tra i 15 e i 24 anni è sceso da 40,3 a 27,4 (per la femmine da 36,9 a 22,9); il tasso di occupazione è calato da 31,0 a 19,4 (per le femmine da 26,7 a 15,5). La riduzione conseguente della massa salariale obbliga a ridurre i consumi, e contribuisce a determinare la ulteriore caduta della domanda, peraltro già carente, e quindi a generare un processo involutivo dell’economia. Non va dimenticato, infatti, che studi appropriati hanno dimostrato come l’insieme dei consumi contribuisca, almeno per l’Italia, per circa il 90 per cento alla crescita del Prodotto interno lordo. L’approfondimento della realtà della disoccupazione pone tuttavia in luce altre carenze di tipo strutturale formatesi negli anni per un errato indirizzo verso le diverse tipologie di lavoro. Dati statistici mettono in evidenza l’esistenza di opportunità di impiego, anche notevoli, in attività artigiane prive tuttavia di riscontro in una domanda adeguata. Da anni s’è diffusa e rafforzata la tesi secondo la quale a valere è necessariamente un’operosità staccata dalla materialità; è stata perciò incoraggiata una formazione atta a preparare, in via pressoché esclusiva, verso sbocchi giudicati intellettualmente avanzati, senza badare alle reali attitudini degli aspiranti lavoratori. Senza una corretta valutazione delle opportunità d’impiego la stessa scelta, giusta e sacrosanta, di diffondere a tutti la possibilità di accedere agli studi ha prodotto effetti contrari a quelli desiderati. Scontratasi con la cronica insufficienza di risorse e con la mancanza di un piano condivisibile della scuola e dell’Università, detta opzione ha prodotto il gigantismo dell’accesso agli studi senza la possibilità di gestirla in modo corretto. Ne è derivata la necessità di dare comunque sbocco all’accresciuta istanza formativa, ulteriormente sollecitata da informazioni riguardanti altri Paesi, testimonianti tassi di laureati sulla popolazione giovanile assai più elevati di quelli nazionali. La reazione s’è concretata in uno sciocco buonismo, grazie al quale si sono presentati nel mondo del lavoro numeri molto consistenti di diplomati e laureati con preparazione mediocre se non decisamente insufficiente. L’esito sociale di impostazioni tanto approssimative è stato quello, riscontrabile soprattutto negli anni recenti, di limitare le possibilità di lavoro di miglior livello a quanti hanno potuto prepararsi in istituzioni qualificate (anche straniere) spesso grazie al sostegno delle famiglie, lasciando la restante maggior parte di fronte alle modeste prospettive di impiego nei call center e comunque nella precarietà. Esito esattamente opposto a quello che s’intendeva perseguire. Il problema ha avuto inoltre un pesante aggravamento nella mancanza di orientamento nelle scelte dei campi ai quali dedicarsi, spesso motivate più dalla premura di acquisire il pezzo di carta che non da un interesse effettivo: non si spiega altrimenti la fuga da facoltà scientifiche (matematica, fisica, chimica pura) e la forte concentrazione in altre, quali scienza delle comunicazioni, scienze psicologiche, materie letterarie, ovvero in ambiti nei quali gli sbocchi non esistono se non in numero limitato. Perseguire il giusto obiettivo della crescita significa rimuovere anche distorsioni di questo tipo, nelle quali, ancora una volta, si ravvisano carenze strutturali affrontabili certo con maggiori risorse finanziarie, ma al tempo stesso con la decisione di mutare in profondità un modello formatosi in parte in modo spontaneo, ma in buona parte per la mancanza colpevole di competenze e di coraggio nell’affrontare problemi complessi. Giovanni ZANETTI
|