Una vita inventata di notte

Dopo quasi settant’anni, esce in Italia un romanzo cult di Pierre Mac Orlan, «Il porto delle nebbie» (Adelphi, traduzione di Cristina Födes, pp. 143, euro 16,00), arricchito da un saggio di Guido Ceronetti e una postfazione di Francis Lacassin, entrambi da non perdere. La prima traduzione italiana, piuttosto bella, di Liliana Scalero, ma sconosciuta a Ceronetti, che considera come prima edizione italiana questa di Adelphi, risale ai tempi della guerra e apparve presso un piccolo e coraggioso editore, Jandi Sapi, nel 1944.

Il lettore italiano viene subito indotto a identificare questo titolo con un celebre romanzo di Simenon, «Le port des brumes» (1932), che appartiene alla prima serie  dei romanzi di Maigret e non c’entra nulla con «Le quai des brumes», scritto da Mac Orlan nel 1927 e ambientato nella Montmartre della Belle Epoque, intorno al 1910. Dov’è allora il porto?, si chiede Ceronetti. Il termine francese quai significa molo, banchina, imbarcadero, ma anche incrocio, crocevia, ed è in questo senso che va inteso. Si riferisce infatti al luogo in cui è ambientata la vicenda, una bettola situata sulla collina di Montmartre, tra spiazzi di erbacce, vigne e orti, che alla fine dell’Ottocento era un covo di malavitosi e si chiamava Les Assassins, diventata poi celebre col nome di Lapin Agile, locale frequentato da Picasso, Modigliani e Apollinaire, e oggi meta turistica.

Lacassin spiega così l’origine del nome: nel 1886 il locale viene acquistato da comare Adèle, la cui specialità culinaria era lo spezzatino di coniglio al vino bianco, e il disegnatore, André Gill, dipinse sulla facciata un coniglio che scappava da una pentola, da cui il nome Lapin à Gill.

In un bellissimo saggio Ceronetti ricostruisce il contesto sociale e culturale dell’epoca, inserendo il romanzo nel Fantastico Sociale, una tendenza diffusa nella letteratura tra le due guerre, di cui parla lo stesso Mac Orlan nel romanzo dell’anno successivo, «Rue Saint-Vincent», intesa a rappresentare la disperazione, la solitudine, l’ignominia della vita. Ne sono intensa e altissima testimonianza «Berlin-Alexanderplatz» (1929), il grande romanzo dell’espressionismo tedesco di Döblin, e «Viaggio al termine della notte» (1932) di Céline, ma anche il cinema, con «Metropolis» (1927) e «M-Il mostro di Düsseldorf» (1931) di Fritz Lang e «L’Atalante» (1934) di Vigo.

Il romanzo di Mac Orlan divenne popolare proprio grazie al cinema: nel 1938 Marcel Carné creò un film memorabile, emblema del “realismo poetico” e degli umori del Fronte popolare, «Il porto delle nebbie», sceneggiato da Jacques Prévert e interpretato da Jean Gabin e Michèle Morgan, due icone del cinema francese, Michel Simon, incarnazione del male assoluto, e Robert Le Vigan, che diventerà il compagno di Céline nella fuga verso il nord della Germania.

Le differenze tra romanzo e film sono nette, come rileva Ceronetti: dal quartiere di Montmartre la scena viene spostata al porto di Le Havre, più consona quindi al titolo, e la storia frammentaria di Mac Orlan con «l’incontro, appena ravvivato da una spruzzata di desiderio, tra un cliente povero e una prostituta di cabaret», trova una sorta di unità nella disperata storia d’amore tra i due protagonisti, Jean e Nelly, un amore breve e fulmineo, incalzato dalla morte.

Mac Orlan (1882-1970), pseudonimo di Pierre Dumarchey, scrittore dimenticato e quasi ignoto alle storie letterarie, amato però da Céline e da Queneau, fu un prolifico autore di romanzi, racconti e canzoni di successo,e nel dopoguerra divenne membro dell’Académie Goncourt. Tra i suoi romanzi più noti citiamo «Il riso giallo» (1914), una parodia de «La guerra dei mondi» di Wells, «Il canto dell’equipaggio» (1918), un libro d’avventure simile a «L’isola del tesoro» di Stevenson, e «La Bandera» (1931), trasformato in film da Duvivier nel 1935 con Jean Gabin.

Lacassin definisce il romanzo un «crocevia di solitudini […] in una notte di neve» che si incontrano al Lapin Agile: Jean Rabe, un vagabondo tallonato dalla miseria, Michel Kraus, un giovane pittore tedesco, Marcel Launois, un soldato che ha combattuto in Africa, tormentato dal cafard (scarafaggio, ma anche umor tetro), un macellaio assassino, Zabel, e una giovane ragazza bionda che fa la prostituta, Nelly.

Nelly è un personaggio meraviglioso, «una creatura al tempo stesso candida e furba», che si spacciava, a seconda dei casi, per ballerina o dattilografa, giornalista o scultrice, «mentiva con candore» e «passava attraverso l’esistenza come una foglia morta, una foglia bionda spazzata dal vento. Non vedeva niente, non ricordava niente. Quel che le piaceva era vivere una vita inventata di notte al Lapin Agile davanti a qualche amico. Vita così effimera che bastava un bicchier d’acqua mescolata a un po’ di rum per farla svanire dalla memoria della ragazza».

La sua leggerezza è un’immagine luminosa in una storia cupa e orrenda, dove tutti i personaggi, tranne lei, fanno una triste fine. Il soldato si arruola nella legione straniera, il pittore si impicca nella soffitta dopo aver lacerato le tele dei suoi quadri, il macellaio viene ghigliottinato per aver ucciso un amico che falsificava francobolli rari, Rabe, convocato dalle autorità militari, viene ucciso per aver sparato contro i soldati, mentre nel film è un disertore che diventa omicida per amore.

Nella scena finale, posposta al 1919, dopo la guerra, vediamo Nelly diventata entraîneuse in un dancing dove suonano musica jazz, mentre beve champagne e ha con sé il cagnolino di Rabe. Mac Orlan «aveva già visto tutto, capito tutto, inventato tutto», dirà Céline, e la nebbia che avvolge la storia accomuna nella tristezza il paesaggio desolato e l’anima dei personaggi. Massimo ROMANO

 



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