Più Europa per salvare l'euro

«L’Unione europea ha un’unica strada per uscire dalla crisi che l’attanaglia: avviare la sua trasformazione in un sistema federale. L’ha detto bene il governatore Ignazio Visco nella relazione all’ultima assemblea della Banca d’Italia: l’eurozona è una realtà di 300 milioni di persone con 20 milioni di imprese. Il disavanzo annuo e il debito pubblico sono rispettivamente al 3 e al 90 per cento del Pil. Si tratta di numeri assolutamente sostenibili, soprattutto se si pensa che la ricchezza delle famiglie ammonta a tre volte il loro reddito annuo e che l’indebitamento delle imprese è pari al valore di quanto producono in un anno. Il problema, però, è che questa entità è virtuale, esiste soltanto sulla carta».

A fare questa amara constatazione è l'economista Giuseppe Berta, docente di Analisi delle politiche e management pubblico all’Università Bocconi ed esperto di Storia dell'industria, cui abbiamo chiesto una panoramica sulla situazione economica di un'Europa della quale, afferma, «oggi si potrebbe purtroppo ripetere ciò che il principe Metternich diceva dell’Italia all’inizio del Risorgimento: per il momento è ancora un’espressione geografica».

Professore, cosa manca all'Unione europea per essere una realtà concreta?

Semplice, le mancano un’effettiva integrazione e istituzioni comuni di governo. L’Europa è ora dinanzi a un bivio: o si trasforma, a questo punto in tempi accelerati, in un vero sistema federale o rinuncia al grande progetto dell’integrazione, che ha perseguito per oltre mezzo secolo. È chiaro che una rinuncia comporta anche l’abbandono della moneta unica, perché essa trovava senso soltanto nella prospettiva di un’Europa unita.

Quali le possibili tappe di questo percorso?

I passi che si possono compiere nella direzione di una maggiore integrazione possono essere molteplici. Essi vanno dalla “unione bancaria” di cui abbiamo sentito parlare in questi giorni, in occasione della crisi della Spagna, oppure si può pensare a un aumento dei poteri e della libertà d’azione della Banca centrale Europea. Più di tutto, però, conta dare un segnale, compiere dei passi effettivi che possano davvero testimoniare la volontà di difendere a tutti i costi la moneta unica, facendo sì che la Grecia non esca dal sistema dell’euro.

Cosa pensa degli eurobond?

Gli eurobond, ossia obbligazioni garantite a livello sovranazionale, sono un passo nella giusta direzione, perché presuppongono un debito pubblico europeo, partecipato da tutti i Paesi dell’eurozona. Di fatto, sono un altro modo per alludere allo stesso problema, quello dell’unità europea. Un debito pubblico comune presuppone inevitabilmente un fisco e una spesa pubblica comuni; dunque, ci vuole un ministero del Tesoro sovranazionale per  tutti gli Stati membri. C’è da osservare, tuttavia, che il presidente francese Hollande, finora il più deciso sostenitore degli eurobond, non si è spinto a dire che per realizzarli occorre un trasferimento di potere dagli Stati alla Comunità. Essi devono inevitabilmente cedere sovranità alla dimensione europea sovranazionale. La Francia è disposta a propugnare un simile cambiamento?

Veniamo all'Italia. Come valuta il nostro quadro economico?

Il quadro economico italiano è pessimo. Siamo in piena recessione: gli ultimi dati dicono che il Pil si sta contraendo su base annua dell'1,4 per cento. Quando si faranno i conti relativi alle conseguenze economiche del terremoto dell’Emilia emergeranno assai probabilmente cifre ancora peggiori. Ciò deriva dal fatto che le misure di rigore e di austerità che ci sono state imposte dalle istituzioni europee hanno ancor più depresso la già modestissima capacità di crescita del nostro Paese. In un certo senso, è il classico cane che si morde la coda: la politica del rigore colpisce una nazione che la crisi aveva già duramente provato e perciò penalizza ulteriormente il suo vigore economico e imprenditoriale. Ciò determina uno scarso afflusso di risorse in direzione dello Stato, che si trova con un calo ulteriore dei mezzi a disposizione, come dimostra il gettito fiscale mancante che ora ammonta a circa 3,5 miliardi di euro.

Già prima della crisi soffrivamo di una crescita asfittica. Cosa si deve fare per tornare ad accettabili  tassi di sviluppo?

Stanti le attuali politiche economiche volute dai partner più forti dell’Unione europea, Germania in testa, non ci sono vie d’uscita dalla situazione in cui versa l’Italia. A mio avviso, occorrerebbe una politica decisamente espansiva, molto più sulla falsariga di quella perseguita negli Stati Uniti dal presidente Obama, piuttosto che la linea di cieco rigore praticata in Europa. Ma l’Italia oggi non ha il potere di rovesciare quest’impostazione, quand’anche il governo Monti intendesse farlo. Del resto, si vede che cosa sta succedendo col pur timidissimo “decreto sviluppo”, che non si riesce a varare per l’assenza di risorse essenziali…

Quali misure, allora, dovrebbero essere adottate?

Al di là di singoli provvedimenti più o meno azzeccati, il problema è che ci vorrebbe un quadro di politica economica radicalmente differente dall’attuale. Senza un mutamento profondo di indirizzi, sconteremo inevitabilmente un depauperamento del nostro tessuto produttivo, un peggioramento ulteriore dell’occupazione giovanile e anche delle condizioni d’impiego dei giovani, mentre un numero, temo elevato, di lavoratori che perdono il posto, non avendo la possibilità di essere accompagnati al pensionamento, finiranno col ritrovarsi disoccupati. Ripeto: per far fronte a questioni di questa gravità occorrerebbe una politica espansiva, cioè l’esatto contrario di quanto si sta facendo. Finché l’Europa non cambierà radicalmente la propria politica, non ci sarà da aspettarsi nulla di buono.

Spending review. Cosa si può ottenere?

La spending review non può essere, a mio avviso, soltanto una razionalizzazione della spesa esistente. Deve unirsi a una revisione profonda del modo di operare della pubblica amministrazione, introducendo principi di responsabilità e di precisa imputabilità dei compiti che oggi sono disattesi. In altre parole, si può e si deve limare la spesa, ma occorre pensare a come far funzionare in maniera più decente la macchina pubblica. Altrimenti è improbabile che si riesca a ottenere il miglioramento della qualità della spesa che si dice di voler perseguire.

Quale è il suo giudizio sul governo Monti?

Nato in fretta, sotto gli auspici di una correzione “tecnica” dei guasti prodotti dalla politica, il governo Monti non dispone di una visione e di una prospettiva tali da poter incidere in profondità sull’assetto del nostro Paese. Per ridestare lo sviluppo non basta invocare un po’ più di flessibilità, di privatizzazioni e di liberalizzazioni. Queste misure possono sicuramente rivelarsi utili, ma a condizione di accompagnarsi ad una comprensione di quali sono le architravi dello sviluppo italiano e le forze vitali e dinamiche, ancora presenti nella nostra società, che vanno attivate per la crescita. Questo non è un compito da “tecnici”, perché chiama in causa una visione politica, nel senso alto, della nostra società, delle sue componenti e dei suoi valori. Ricostituirla dovrebbe essere il mestiere di chi fa parte a pieno titolo del sistema politico, che però purtroppo oggi sembra aver abdicato totalmente alla propria missione.

Questo governo forse non avrà, come dice lei, grandi visioni, però rivela un certo piglio. Ad esempio sulla Rai...

La questione Rai rappresenta uno dei nodi più complicati e tormentosi del nostro sistema politico. Mi sembra che il presidente del Consiglio abbia cercato di ricostituire la sua autorità proponendo in maniera autonoma un assetto di vertice. Ha tentato insomma di dimostrare la sua volontà di non essere subalterno ai giochi e agli interessi dei partiti. La soluzione prescelta non è quella ottimale, perché né il nuovo presidente della Rai né il direttore generale mostrano competenze precise. Sono stati selezionati in modo da poter apparire come arbitri al di sopra degli interessi in campo. Vedremo a breve se la scelta avrà funzionato.

Aldo Novellini



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