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Afghanistan solo guerre senza fine
Nel giugno 2014 dovrebbero rimanere in Afghanistan circa 2 mila italiani, metà dei quali verranno fatti rientrare in patria nei successivi sei mesi; dopo di che 800-1.000 rimarrebbero per il post-Isaf con compiti addestrativi e per una non meglio precisata «consulenza istituzionale». Naturalmente è previsto anche, dopo il 2014, un contributo finanziario a Kabul per la realizzazione di una serie di infrastrutture, a testimonianza, ha dichiarato il presidente del Consiglio Monti, dello «sforzo coerente col ruolo incisivo di primo piano che abbiamo avuto laggiù». Tutto bene, salvo l’illusione, non si sa quanto in buona fede e scientemente coltivata, che tutto ciò serva a introdurre, e soprattutto a mantenere, la democrazia in Afghanistan. Un compito davvero arduo, per non dire impossibile, in un Paese che da sempre è geloso della propria autonomia contro tutto e contro tutti. Tanto è vero che, per essere sicuro di riuscirci, non ha mai consentito a possedere almeno un tracciato ferroviario che unisse la capitale Kabul a Herat o a Kandahar, le altre due città più importanti del Paese. È facile comprendere le ragioni di questa assoluta refrattarietà al mondo occidentale. L’Afghanistan ha da sempre costituito la porta d’accesso all’India, obiettivo che, già perseguito da Alessandro Magno, nei primi decenni dell’Ottocento diveniva oggetto dell’aspro contendere di Inghilterra e Russia, le due Grandi potenze che detenevano il controllo di quella porzione d’Asia sulla quale gravitavano gli opposti interessi, e quindi le opposte mire. C’era dunque Londra, che nel 1815, dopo essersi finalmente sbarazzata di Napoleone e della declinante potenza spagnola, poteva tranquillamente dedicarsi, grazie alla forza e al prestigio della Royal Navy, a curare i propri interessi. Questi s’identificavano nel vasto impero coloniale che aveva nell’India un fiore all’occhiello da preservare intatto, impedendo con ogni mezzo ai russi di venirne a godere il profumo. Dall’altra parte stava San Pietroburgo, il cui prestigio, cresciuto a dismisura dopo la catastrofica sconfitta inferta a Napoleone, in pratica obbligava la Russia a condurre una politica esplicitamente di grande potenza in una duplice direzione, ma con un unico obiettivo: la conquista dell’India o quanto meno l’affacciarsi sull’Oceano indiano. A Sud si assisteva dunque al consolidamento del possesso della Caucasia, fiaccando la tenace resistenza di armeni, georgiani, circassi, azeri, ceceni, daghestani; a Est invece la conquista dei Canati musulmani dell’Asia centrale (Chiva, Buchara, Kokand) in modo da costituire, senza soluzione di continuità, una fascia di potere dal Caspio a Vladivostok. Era un’area immensa, una terra di nessuno di lì a poco destinata a ospitare ambiziosi ufficiali ed esploratori di entrambe le parti, impegnati a rilevare i valichi e i deserti che gli eserciti avrebbero dovuto affrontare in caso di guerra. È proprio qui che si svolse, durante l’intero Ottocento, quello che il capitano dell’esercito britannico Arthur Conolly chiamò «il Grande Gioco», divenuto il titolo di uno splendido volume che Peter Hopkirk (Adelphi 2004) ha dedicato alla contesa anglo-russa per il controllo dell’Asia mediorientale, tassello non secondario della storia mondiale. Un Grande Gioco particolarmente sanguinoso, caratterizzato da tre guerre (1838-‘42, 1878-‘80 e 1919-‘21) che gl’inglesi combatterono per domare gli afghani senza riuscirvi del tutto, ma in compenso subendo gravissime perdite culminate in un paio di massacri nel 1841-‘42. Il 13 gennaio 1842 un intero esercito inglese fu sterminato lasciando in vita un solo superstite, un medico di nome William Brydon, che solo dopo giorni di peripezie riuscì a dare l’allarme e a narrare l’orribile mattanza. Questa fu ripetuta nel 1879, quando a farne le spese furono il conte Louis Cavagnari, oriundo francese, inviato da Lord Lytton, governatore dell’India (nel frattempo divenuta territorio sotto la diretta responsabilità della corona) per contrastare un’analoga iniziativa russa. Cavagneri e il suo seguito erano transitati per il fatidico valico Khyber, chiave strategica dai punti di vista economico e soprattutto militare. Non a caso lo storico scozzese Paddy Docherty ha scritto un interessante volume (il Saggiatore 2010) dedicato al Khyber Pass, protagonista di «una storia di imperi e di invasioni». Ciò spiega perchè il Khyber Pass «entrò nell’immaginario popolare britannico come una preda romantica da difendere a tutti i costi». Ci entrò e ci rimase, e non solo per gli inglesi, ma anche, grazie al cinema, per un pubblico a livello mondiale. A questo proposito rammento infatti tre vecchi film che illustrano aspetti della guerra che coinvolse in modo diverso la questione afghana. Innanzitutto il leggendaraio «La carica dei 600» (1936, protagonista Errol Flynn), la cui prima parte evoca lo sterminio di una colonna di profughi inglesi evacuati da un forte e trucidati a tradimento da bande di afghani; poi «Il principe Azim» (1938), ambientato nel Punjab, la zona più turbolenta dell’India britannica: una colonna di soccorso varca le montagne per andare in aiuto di un presidio assediato da guerriglieri in rivolta. Il terzo film è «Kim» tratto da Kipling (1950, ancora con Errol Flynn), ambientato nel 1885 ai confini fra l’attuale Pakistan e l’Afghanistan: è una vicenda romanzesca tipica del Grande Gioco che vede impegnati un agente governativo inglese e spie russe. «Khyber Pass» è un libro affascinante da leggere ma anche, mi metto nei panni dell’autore, da scrivere: nel tentativo, riuscito, di mettere insieme qualcosa come 2.500 anni di storia, e quale storia! Ha perfettamente ragione Docherty: il Khyber Pass «è stato testimone di un’interazione militare e culturale particolarmente intensa, che forma l’essenza della storia delle regioni che unisce». È stato «l’itinerario imprescindibile degli eserciti persiani, greci, sciti, kushana, unni bianchi, turchi, mongoli, moghul e afghani che lo hanno attraversato per invadere l’India in momenti diversi nel corso dei secoli, creando imperi e gettando i semi di nuove culture nella loro scia». Ma torniamo al fallimento della missione Cavagnari. L’Inghilterra, da poco divenuta ufficialmente potenza imperiale, metteva fine per parte sua alla questione afghana, ponendo sotto la propria tutela la politica estera di Kabul, ma continuando nel contempo la neutralità armata nei confronti della Russia. Lo zar si annetteva l’uno dopo l’altro i vari canati musulmani dell’Asia centrale: fra il marzo 1868 e l’agosto 1875 le truppe del generale Konstantin Kaufman conquistavano infatti Buchara, Chiva e Kokand. Nel febbraio 1884 veniva aggiunta Merv. A questo punto l’operazione di aggiramento del nord dei domini inglesi era completata: sul finire dell’Ottocento e nel primo lustro del Novecento la Russia assumeva quel ruolo assoluto di potenza mondiale che solo la disastrosa sconfitta subita dal Giappone e in seguito lo scoppio della Prima guerra mondiale si sarebbero incaricati di ridimensionare. Il Grande Gioco andava dunque esaurendosi non già per mancanza di ragioni di contendere, ma per il sopraggiungere di eventi di maggiore importanza. Il 31 agosto 1907 i due ministri degli Esteri, l’inglese sir Edward Grey e il russo conte Aleksandr Izvolskij, firmarono in gran segreto a San Pietroburgo la storica convenzione anglorussa riguardante il futuro di Tibet, Persia e, manco a dirlo, del Paese più importante, l’Afghanistan. Di quest’ultimo fu riconosciuta formalmente l’appartenenza alla sfera d’influenza britannica. Il che tuttavia non impedì nel 1919 l’insorgere di una terza (breve) guerra anglo-afghana, che vide Aman Ullah Kan (da emiro divenuto poi re) prendere le distanze dagli inglesi che riconobbero finalmente la piena indipendenza dell’Afghanistan. Il Grande Gioco era terminato con la momentanea vittoria britannica. Nel 1973 la fine della monarchia, con l’esilio di Mohammed Nadir Shah che era stato per quarant’anni il saggio elemento equilibratore, ha riaperto infatti un periodo di turbolenza di cui non si può prevedere la conclusione. Una cosa è certa: una lettura attenta e approfondita del fondamentale testo di Hopkirk, pubblicato nel 1990, avrebbe potuto impedire gli anglo-americani & C. di ficcare il naso negli affari afghani. Se è vero che la via per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, quella che attraversa da Ovest a Est e da Sud a Nord è ugualmente lastricata, ma di migliaia di cadaveri. Sarebbe davvero giunto il momento di non aggiungerne altri. Giorgio Gualerzi
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