Un'etica a cielo aperto

Si respira nell’aria un grande bisogno di etica, di trovare indicazioni per il nostro vivere individuale e sociale. Certamente la crisi in cui siamo sprofondati, che solo una maliziosa miopia può considerare di natura esclusivamente economica, ha reso ancora più urgenti le domande che da sempre sollecitano l’essere umano. Inoltre il prevalere, a tratti ostentato e trionfante, di modelli negativi ha spinto a cercare nuove risposte e nuove modalità di “sopravvivenza”.

Di tale ricerca è sintomo anche un proliferare di testi che mettono al centro della loro indagine, con un’intensità e una frequenza che non si riscontravano in passato, il problema morale. Fra i tanti, vogliamo qui prenderne in esame uno che si segnala per l’originalità della proposta e l’onestà degli intenti. Si tratta di «Il coraggio dell’etica. Per una nuova immaginazione morale» (Raffaello Cortina, pp. 220, euro 20,00) di Laura Boella, docente di Filosofia morale all’Università degli studi di Milano, esperta del pensiero femminile del ‘900, autrice di alcuni studi fondamentali sull’empatia e i rapporti fra le neuroscienze e l’etica, fra i quali ricordiamo «Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia» e «Neuroetica: la morale prima della morale» (tutti editi dallo stesso editore).

La sua riflessione prende avvio dalla constatazione che «ormai compiuto il primo decennio del 2000, si guarda all’etica “a cielo aperto”, con la perdita di alcune certezze, di solidi criteri di orientamento, ma anche consapevoli di nuovi orizzonti di ricerca». Qui tocchiamo subito una questione centrale. Con la suggestiva espressione «etica a cielo aperto» viene intanto inquadrato con precisione lo status quo della morale: viviamo in un’epoca in cui tante certezze che hanno sostenuto e accompagnato i nostri predecessori si sono sgretolate, hanno perso per così dire la loro luminosità. In tale dato di fatto, con tutte le drammatiche implicazioni che comporta, non si tratta di cogliere soltanto una dannazione dei contemporanei, ma anche una nuova opportunità. E infatti il saggio della Boella è nato anzitutto come reazione «al discorso minimalista oggi dominante, che priva l’etica dei principali sostegni tradizionali e la declina in termini di “senza” (senza certezze, senza norma, senza ontologia, senza dovere, senza meta), e tuttavia si propone come residua, poco impegnativa, visto che non obbliga a niente, àncora di salvezza nei tempi bui che stiamo attraversando». Efficace ci pare anche quest’altra espressione, «l’etica senza», in cui sembrano trovare spazio soltanto «le improvvisazioni morali, il pamphlet, l’intervento istantaneo su un quotidiano o alla televisione o in un blog. Come se si volesse scalare una montagna d’inverno senza ramponi e piccozza».

La preoccupazione della filosofa ha anche una motivazione storica, nel senso che il ‘900, reagendo alle tragedie provocate dai totalitarismi, ha elaborato una morale “negativa”, nella misura in cui si è declinata come impegno a evitare il male, a non sbagliare. L’intenzione è di verificare se non si possa, oggi, aspirare a un progetto più grande, che si traduca in un’etica “positiva”, in grado cioè di indicare se e come l’uomo è capace di scegliere il bene, di compiere azioni buone. Qui non è possibile seguire il percorso del saggio in tutti i suoi passaggi, ma vale la pena indicarne almeno i momenti salienti.

Come ha inizio dunque la vita morale? Perché e come una persona trova la forza di scegliere il bene, anche se non si presenta come la via più facile? Recuperando i suoi studi precedenti sull’empatia, la Boella sottolinea come essa sia una risorsa fondamentale, in quanto porta un soggetto fuori dai confini dell’io, permettendogli di incontrare l’altro. Ora, se è indubbio che essa appartiene agli uomini come dote naturale, originaria, innata, lo è altrettanto che non è sufficiente a garantire comportamenti virtuosi e solidali. Al contrario, quel dato “congenito” richiede impegno, la pazienza del contadino che coltiva la terra, altrimenti questa si seccherà e non darà alcun frutto. Potremmo forse anche dire che la natura, la biologia, chiedono l’integrazione dell’educazione, della cultura, della volontà libera dell’individuo.

Se l’obiettivo è quello di identificare una possibilità di costruzione del bene, non di un mero rifiuto del male, la ricerca deve indirizzarsi a cercare quel punto, del nostro essere, in cui avviene una rottura del procedere automatico delle cose, quella zona, che mai sarà decifrabile integralmente, grazie alla quale un uomo diventa capace di dire no, di «uscire dalla fila», dice con immagine pregnante la Boella: quel luogo nel quale una persona si assume la responsabilità di una scelta e, accettando anche di andare controcorrente, spezza la catena meccanicistica dell’istinto, della ripetizione, dell’omologazione, dell’assuefazione, della rassegnazione.

Il discorso si chiarifica se calato nel contesto della riflessione di Hannah Arendt, la filosofa ebrea che, assistendo al processo ai gerarchi nazisti, coniò la celebre categoria della «banalità del male». Cosa ha consentito, a tanti uomini e donne sotto il giogo del nazismo, di non mettere a tacere la coscienza, diventando capaci di atti di ribellione? In virtù di che cosa, in un contesto di male, in cui il male era talmente scontato da diventare banale, è sopravvissuta ed è stata realizzata una condizione di bene? Come si è potuta interrompere l’automatica, naturale iterazione del male?

Secondo la nostra filosofa, per rispondere a tali domande, e riuscire così a comprendere perché e come l’uomo sia in grado di scegliere e fare il bene, dobbiamo riabilitare una facoltà finora sottovalutata o relegata fra le facoltà meramente sensoriali, l’immaginazione, fino a farla diventare l’organo morale per eccellenza. Dal momento che un’azione morale non è data senza la capacità di uscire dal cerchio della soggettività, dobbiamo dedurre che solo incontrando l’altro, solo mettendoci nei panni dell’altro, possiamo compiere azioni buone. Ma quale funzione, se non l’immaginazione, rende possibile tale processo? L’empatia stessa non nasce da una capacità immaginativa? E non è tutto qui: l’immaginazione si mostra capace non solo di aprire gli occhi del nostro io sull’altro da noi, ma anche di pensare l’impossibile, cioè di immaginare situazioni e possibilità diverse da quelle date.

Nel pieno della Shoah, nel buio di un lager, solo l’immaginazione di un’alternativa ha reso possibile le gesta eroiche di tante persone, che non hanno piegato la loro coscienza all’orrore. In questo modo, l’immaginazione crea una rottura, provoca discontinuità, riuscendo a vedere l’altro nella sua realtà e riuscendo a contemplare un mondo diverso.

Paolo Perazzolo



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