Buzzati reporter dell'ignoto

 

È un pregiudizio diffuso che il mestiere del giornalista e l’esercizio della scrittura letteraria percorrano strade diverse, destinate a non incontrarsi. Esso ha messo radici anche nella critica, diffidente verso lo scrittore giornalista, come se i prodotti della sua officina portassero un marchio di inautenticità.

La fortuna e il successo di pubblico di Dino Buzzati ancor oggi, a quarant’anni dalla morte, smentiscono clamorosamente questo pregiudizio e dimostrano al contrario come le due vie possano intersecarsi in un dinamico gioco di intrecci e di contaminazioni. L’inchiesta sul fatto di cronaca scopre insospettati retroterra, illumina i complessi scenari che gli fanno da sfondo, ed esige per la sua esplorazione la sensibilità e l’attenzione al dettaglio che sono proprie di uno scrittore. E’ proprio la “nera”, assurta con Buzzati alla dignità di genere letterario a rivelare la partecipazione emotiva dello scrittore giornalista, che trasfigura il resoconto e organizza in sequenza narrativa i dati di cronaca.

Le stesse didascalie della «Domenica del Corriere», settimanale da lui curato, sono abbozzi di racconto. È il “mestiere” a sostenere e alimentare la sua vocazione alla scrittura letteraria. Basta sfogliare la raccolta in «Cronache terrestri» dei suoi pezzi sul «Corriere della sera», il giornale ove lavorò per oltre quarant’anni dal 1928, per apprezzare la sua straordinaria abilità di andare oltre l’immediatezza del dato, di coglierne le connessioni e di spiegarne le cause. Un attento confronto tra gli scritti giornalistici e le pagine più squisitamente creative verifica la loro complementarietà.

Come ebbe a dire Montale, «i fatti di cronaca sono trasformati in favole morali, nei libri i racconti sono trasformati in cronache fantastiche». Il poeta genovese indicava felicemente il procedimento dello scrittore, per cui le cose sognate o immaginate si innestano nella trama del réportage in un percorso che conduce dal presunto vero al fantastico, cancellando i confini tra mondo reale e mondo immaginato. Buzzati intraprende così il suo viaggio nel mistero delle cose, rimuovendo il velo delle apparenze, in una trepidante scoperta del loro significato nascosto. Secondo una tecnica collaudata sin dalle prime prove narrative, dal suo esordio nel 1933 con «Barnabo delle montagne» a «Il segreto del Bosco Vecchio» (1935), ai «Sessanta racconti» (1958), alle successive raccolte di racconti «Il colombre» (1966), a «Le notti difficili» (1971), il miracoloso, l’imprevisto, il surreale si situano in un ambiente realistico, in una dimensione di quotidianità. La concretezza della rappresentazione in un linguaggio comune assicura la naturalezza del passaggio dal reale al magico. Anche nei racconti più conturbanti e stregati Buzzati mantiene un livello di discorso colloquiale, in un registro quasi di cronaca.

È questa sua sobrietà a fare la differenza rispetto al realismo magico di Massimo Bontempelli o alle raffinate invenzioni surreali di Tommaso Landolfi, gli scrittori a cui viene talora avvicinato. In controtendenza rispetto al neorealismo e alla letteratura del documento, dominante in Italia nel secondo dopoguerra, punta su di un tipo di racconto allegorico che può svariare dal visionario, al tragico, al surreale. La realtà, puntualmente rappresentata, è trascesa nella dimensione del simbolo, assunto come cifra del mistero. A volte il racconto prende forma di apologo o di fiaba venata di sorridente, garbata ironia, come ne «La famosa invasione degli orsi in Sicilia» (1945).

A partire dagli anni Cinquanta più evidenti sono le suggestioni metafisiche; il racconto si arricchisce di echi e risonanze che sembrano tradire nascoste e ineffabili presenze. Ma è soprattutto il terzo romanzo, «Il deserto dei Tartari» (1940), amara parabola dell’esistenza umana, scandita da gesti ripetitivi, consumati nell’inutile e disperante attesa di una prova decisiva che le dia senso, a rivelare la grandezza dello scrittore. La vicenda del tenente Drogo, a forte valenza simbolica, riassume un destino comune. Il racconto buzzatiano dà forma a una diffusa inquietudine, interpreta esemplarmente un disagio collettivo, avverte la minaccia che grava sull’Europa.

Il tema della prova ripreso dai precedenti romanzi, nel «Deserto dei Tartari» si traduce in una dimensione tutta interiore, quella dell’incontro decisivo con la morte, che la voce narrante definisce, con espressione biblica, «l’ultimo nemico». È la battaglia definitiva che illumina di senso l’attesa di Drogo, altrimenti ingiustificata. L’anomalia del «Deserto dei Tartari» nella letteratura italiana dei tardi anni Trenta, con cui non sembra avere legami, lo apparenta al contrario con la grande famiglia del romanzo europeo. Con Sartre e soprattutto con Camus, con cui ha in comune la denuncia dell’assurdo della condizione umana, da una parte, con Kafka e Mann dall’altra. Dal primo riprende immagini emblematiche e la struttura allegorizzante del racconto, con l’autore della «Montagna incantata» interloquisce sul tema del tempo, percepito da Buzzati nella sua dimensione entropica di fuga inarrestabile verso il nulla. C’è poi un altro aspetto che accomuna il «Deserto dei Tartari» alla «Montagna incantata»: entrambi sono romanzi di iniziazione. Iniziazione all’intelligenza del senso della vita, e all’incontro con la morte, a cui l’intera esistenza prepara e addestra come in un ininterrotto apprendistato.

Anche l’altro meno fortunato romanzo, «Un amore» (1963), si può configurare come romanzo di iniziazione nella forma del viaggio dentro la città del mistero, di una Milano segreta, “notturna”, popolata di ragazze di vita, rifugio degli sbandati. Un viaggio che approda alla percezione della morte, come ultima meta del destino che l’esperienza d’amore rivela. L’immagine, di sapore kafkiano, della grande torre nera, che conclude il romanzo, dà forma visibile al presentimento della morte. Così anche in questo discusso romanzo, squilibrato nella sua struttura, per la discontinuità del ritmo narrativo, di frequente interrotto dalla voce monologante, Buzzati ripropone la riflessione sul destino di morte che come un manto luttuoso avvolge l’esistenza.

A una lettura retrospettiva di uno scrittore che non ha significativi ascendenti, né un’apprezzabile discendenza, isolato nel panorama della letteratura italiana, a quarant’anni dalla sua scomparsa, non possono sfuggire alcuni dati che legittimano la sua durata nella memoria del nostro tempo. Con «Il deserto dei Tartari» è stato un testimone imprescindibile per una storia della crisi della coscienza europea tra le due guerre. Con il suo teatro, soprattutto con «Un caso clinico» e i suoi eccellenti atti unici, si iscrive autorevolmente nel filone della drammaturgia dell’assurdo, che vanta autori come Beckett e Ionesco. Uno scrittore all’altezza della grande letteratura europea del Novecento quindi. Ma è soprattutto il suo incessante interrogarsi sul mistero dell’Essere, di uno che non ha rinunciato a chiudere la sua partita con l’Eterno, ad assicurarne la memoria. Il suo sguardo oltre la superficie delle cose, al di là dei confini del visibile, la su attenzione al miracolo di una nuvola di foglie sollevate dal vento che assumono la forma di simulacro umano, lasciano intravedere il mistero che abita l’Essere, nei prodigi di ogni giorno, nelle zone d’ombra, ai margini delle cose. In fondo, la sua lezione è l’intelligente cronaca di un reporter, inviato speciale nelle regioni dell’ignoto.

Giovanni Ramella



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