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Nel lavoro tutto fermo per le donne
«Il fisco non scoraggi il lavoro delle donne». Questa è una delle più recenti affermazioni della ministra del Welfare Elsa Fornero, che in occasione di un convegno tenutosi alla Camera sulle politiche familiari e organizzato dal Forum delle associazioni familiari, ha sottolineato come la sua riforma del mercato del lavoro contenga «parecchie misure per favorire il lavoro di chi soffre attualmente degli svantaggi: le donne e i giovani», insieme a elementi di «conciliazione dei tempi di cura validi sia per gli uomini sia per le donne». È difficile comprendere quanto i provvedimenti del disegno di legge, ora in discussione al Senato, riusciranno a modificare l’attuale realtà lavorativa femminile, ma viene da chiedersi se una legge possa modificare la cultura corrente, o invertire la rotta e ridurre il tasso di inattività delle donne italiane, giunto al 48,9 per cento, ben superiore al 35,5 europeo. Può frenare una norma l’abbandono del posto di lavoro per motivi familiari, giunto al 30 per cento delle madri lavoratrici rispetto al 3 per cento dei padri? Una riflessione su ciò che ci si potrà attendere in proposito dalla riforma Fornero la offre Patrizia Tullini, ordinario di Diritto del lavoro alla facoltà di Giurisprudenza di Bologna. Professoressa, quale impianto generale ha il disegno di legge avanzato dalla ministra del Welfare? Dobbiamo attenderci una prevalente tutela alle madri lavoratrici? Non rilevo in questa riforma l’ambizione di occuparsi di servizi alla famiglia, anche se ce n’è molto bisogno. Sarebbe stato però sufficiente che ci si fosse occupati di più del lavoro delle donne. Rispetto agli annunci fatti in partenza, le norme pensate per il lavoro femminile non sono così significative. In realtà, le donne sono considerate come altre fasce di lavoratori svantaggiati, al pari dei giovani. Considerare le donne una forza lavoro debole può sì corrispondere alla realtà, ma questa è un’impostazione che non ritengo di poter più condividere. Cosa manca, secondo lei? Ci si era illusi come studiosi del mercato del lavoro che si potesse dare spazio alla valorizzazione del lavoro femminile, e non solo occuparsi di protezione o di superamento degli svantaggi. Apprezzo che ci siano incentivi economici per le imprese che assumono donne in aree svantaggiate del Paese, però stiamo continuando lungo un’impostazione un po’ datata, che risale ancora alla legge del 2003 che riformava il mercato del lavoro. C’è invece bisogno di valorizzare e promuovere le donne che lavorano, puntando di più su una politica di pari opportunità. Il congedo di paternità obbligatorio per tre giorni, come si legge nella riforma, sarà uno strumento per favorire la suddivisione dei compiti di cura tra uomo e donna? La ministra è molto ottimista se pensa che basti questo strumento. La ragione per cui i congedi di paternità sono meno usati rispetto a quelli di maternità non è tanto collegata alla cultura, perché i nuovi padri sono molto più presenti nella famiglia, e rischiamo di rifarci a stereotipi del secolo scorso. In realtà, sul piano retributivo conviene che sia la donna ad astenersi dal lavoro rispetto all’uomo, perché spesso il suo lavoro, anche a fronte di titoli di studio di alta qualificazione, è pagato meno. Se il valore del lavoro fosse identico tra uomo e donna per stipendio e avanzamento di carriera, sarebbe molto più facile prevedere il congedo di paternità in alternativa a quello di maternità. Ma questa equiparazione sul piano del valore sociale, culturale, economico non c’è. E una legge cosa può fare, allora? Può incentivare i cambiamenti, ma è l’intero mercato del lavoro che va rimesso in discussione. D’altronde i mutamenti sul piano sociale in questi anni ci sono stati, contrariamente a un rivolgimento culturale verso le pari opportunità tra uomo e donna, che resta ancora un tema complesso, faticoso, di lentissima evoluzione. Il ddl Fornero promette di porre fine alle dimissioni in bianco, ma diversi commentatori ritengono che le procedure previste abbiano una notevole complessità amministrativa… Anche prima che se ne occupasse il governo Prodi nel 2007 le dimissioni in bianco erano state represse. Ma il problema reale non è limitabile alla conformazione di una legge, quanto alla capacità di far seguire i fatti alle dichiarazioni di principio. Anche in questo ddl la lavoratrice licenziata deve concorrere nella procedura di avvenuto licenziamento, poiché viene esteso l’obbligo di convalida amministrativa delle dimissioni presentate dai dipendenti. Il lavoratore, in sostanza, deve concorrere all’iter burocratico del suo licenziamento, ma non è così scontato che ciò accada. In genere, confermata la volontà di dare le dimissioni, se ne va e basta. Questa norma chiede invece al lavoratore di confermare le dimissioni davanti alla direzione territoriale del lavoro, e se non lo fa non può esserci certezza dell’estinzione del rapporto. Un problema che può complicare la situazione anche per le aziende che invece si comportano correttamente. Un altro provvedimento riguarda l’aumento dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro che utilizza forme di lavoro parasubordinato, con lo scopo di rendere meno conveniente il lavoro precario rispetto all’indeterminato. Ma non si rischia che invece a risentirne siano i compensi? È un pericolo reale. Nelle collaborazioni a progetto la retribuzione è pattuita al lordo, da cui si detraggono l’Irpef e i contributi previdenziali. Se questi ultimi vengono innalzati, è molto facile che vadano ad erodere il lordo. D’altronde, il quadro garantistico di questi lavoratori deboli è praticamente inesistente, anche se ci sono contratti collettivi di riferimento. Perché l’Italia fatica a diventare un Paese europeo nella politica del lavoro? È solo una questione di costi sociali o l’ostacolo sta nella cultura dominante? Da giurista percepisco che quando si parla di lavoro femminile, di tutele, mercato del lavoro e pari opportunità, finiscono per prevalere stereotipi culturali e sociali che poi filtrano nell’apparato normativo. Le leggi registrano il clima culturale e sociale di un Paese e, nonostante i numerosi dati statistici e le ricerche, finiamo per essere sempre vittime di stereotipi. Per cui del lavoro delle donne ci si fida meno e lo si reputa di minor valore. Ho fatto parte in questi giorni di una commissione di valutazione in cui si discuteva delle quote di riserva per le donne in determinati organismi. Sa che ci sono dei colleghi, quindi degli addetti ai lavori, che intendono le quote come una cifra massima oltre la quale non si può andare? Anche inconsapevolmente c’è ancora chi intende le quote come una riserva indiana che va riempita e non oltrepassata, solo perché la legge lo impone. La riforma equipara l’età di uomini e donne per il diritto al pensionamento. Che società femminile si configura con questo ddl? È la conferma di ciò che si è già visto, perché ancora una volta si chiede alle donne un sacrificio in più, di essere presenti più a lungo nel mondo del lavoro, nella famiglia e nella società, fungendo da motore di coesione sociale e responsabile del ruolo di cura. E tutto questo è chiesto senza che sia riconosciuto. Si guarda tanto ai modelli nord-europei, in cui le donne lavorano di più, ma ci si ferma lì, senza considerare in che mercato si trovino e come siano sostenute perché possano conciliare lavoro e vita familiare. Peccato che questo sacrificio lo chieda proprio una donna… Non ce la si può prendere con la ministra, che ritengo sia intellettualmente onesta. La prospettiva della riforma è però fortemente condizionata da una logica economicista e non credo che ci sarebbe, con questi vincoli, una differenza di pensiero tra un uomo e una donna. Piuttosto me la prendo con chi crede alle “quote rosa” come una riserva indiana. Non si può imputare la responsabilità solo ai ministri e ai legislatori. Sarebbe piuttosto l’ora di assumerci tutti, ad ogni livello, la responsabilità di cambiare le idee e la cultura. Fabiana Bussola
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