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La luce di una vitaSono entrata in quella stanza in punta di piedi. Con il fiato sospeso. Il pudore per l’intimità che l’amica di tanti anni, Mariapia Bonanate, mi stava offrendo con cuore aperto, il timore per la mia reazione davanti alle cose che sfuggono alla ragione, mi avevano trasmesso inquietudine e tremore. Avevano accelerato i battiti del cuore. Mi attendevano in un letto, immerso in un silenzio irreale, gli occhi di lui che mi hanno trafitta come un punteruolo fino in fondo all’anima, mettendola in subbuglio. In un’atmosfera sospesa, solo la voce dell’amica che gli ripeteva dolcemente il mio nome, ricordando le ultime ore conviviali trascorse insieme. Più volte mi ero seduta alla loro tavola, nel soggiorno che si affaccia sulla piazza, con la Mole che svetta tra i fiori delle finestre. Ammiravo da sempre del padrone di casa, ora divenuto una presenza-assenza, la gentilezza discreta, l’ironia intelligente che riscattava le contraddizioni del vivere. Il suo culto per i libri, schierati sugli scaffali con un ordine che lui solo sapeva mantenere con tanta precisione e rivelavano la sua vasta cultura mai esibita. Adesso da quel letto mi scrutava, come volesse riappropriarsi di un viso, di una voce. Nei suoi occhi d’improvviso si accese una luce con il calore e la leggerezza di un sorriso. Erano trascorse poche settimane dal suo ritorno a casa, dopo un anno di ospedale, e ora viveva chiuso dietro ad un cancelletto di cui «si era persa la chiave». Mariapia mi disse che aveva deciso di scommettere sulla mancanza di certezze, proprie dell’Invisibile, perché anche nelle migliori lunghe degenze si diventa dei “numeri”, dei clandestini senza passato e senza futuro, con un solo presente, quello della malattia. Per questo con i figli aveva deciso che non si poteva non accoglierlo nella casa dove lui era stato «discreta e affettuosa presenza di marito e di padre, testimonianza silenziosa d’altruismo e di etica quotidiana». Così avevano allestito quella stanza, nel cuore della casa. Lo avevano avvolto, giorno e buona parte della notte, con le sue musiche preferite, avevano lasciato nella camera gli oggetti che avevano accompagnato la sua esistenza. Figli, nipoti, infermieri, amici si alternavano per condividere nell’amore e nell’ascolto la sua nuova vita. E trepidando gli chiedevano con le parole della canzone che l’amico medico gli aveva dedicato: «Ma tu dove sei?». A distanza di sei anni e mezzo, è giunta la risposta: «Io sono qui-Il mistero di una vita sospesa». E’ il titolo del libro di Mariapia Bonanate, uscito in questi giorni in libreria. «Io sono qui», anche se molti pensano che non sia possibile. «Io sono qui», anche se una cesoia mi ha separato dal mondo. «Io sono qui», e se n’è accorta la mia prima nipotina, quando accarezzandomi il viso ha detto: «Il nonno c’è, anche se non parla». «Io sono qui», fermo su un crinale che divide il nostro mondo dalle terre estreme. «Io sono qui», anche se ho solo gli occhi per testimoniarlo. Un grido che rischiava di restare inascoltato, senza la testarda speranza di chi aveva deciso di affiancarsi al suo viaggio nelle terre estreme, in bilico sul confine che divide la vita dalla morte. Di vivere con lui un' avventura tutta al buio. «Io sono qui» è il resoconto delle varie stazioni di un calvario che si è trasformato in un inno alla vita e ha scoperto un linguaggio nuovo, quello dei sensi riportati alla integrità e sacralità delle origini. Non è solo un romanzo, un racconto, un libro. E’ la vita stessa che ha preso una forma inaspettata, più vera: una vita che si è trovata all’improvviso allo specchio dell’Altrove, dell’Invisibile e, dunque, del “miracolo”. Una vita che si è trasformata, rovesciata come un guanto, lasciando l’essenza della carne viva, che sanguina e si rimargina ogni giorno misteriosamente. L’impianto stilistico non fa che rispettare questa forma: un susseguirsi di capitoli brevi che cominciano con una formula epistolare: «Ciao, Etty». Sì, Etty Hillesum, la ragazza ebrea di ventinove anni, scomparsa ad Auschwitz, che scrisse un «Diario», rimasto per quarant’anni in un cassetto e oggi famoso in tutto il mondo. Mariapia l’aveva scoperta venticinque anni fa, ma quando è entrata nel tunnel della malattia che ha capovolto in poche ore la sua vita familiare, le pagine di quel «Diario» hanno rivelato una presenza, reale e tangibile, accanto a lei. Una presenza che è diventata balsamo alle sue ferite, stimolo continuo a dare voce a chi non ce l’ha più, alle vite spezzate dei «sommersi» di ieri e di oggi. Che le ha chiesto di far riproporre le domande sul mistero del dolore e sull’impotenza che si prova di fronte alla sua assurdità. Non si tratta di suggestioni letterarie e neppure mistiche. Etty è diventata una compagna della «nuova vita» che consola, assiste, ride e piange attraverso una scrittura di parole che sono diventate la componente biologica, cellule vive di un dialogo quotidiano, ininterrotto, che intesse ogni pagina del libro. Due anime, due donne che s’incontrano in un punto dove vige l’eterno e dove Etty c’è, esiste fisicamente, seppure nelle pagine di quel «Diario» che Mariapia in questi anni ha acquisito la metafisica abitudine di aprire a caso, nel momento pungente, dissestante del dolore. Nelle ore della «notte oscura» della disperazione, del buio, dello smarrimento. E ogni volta ha incontrato una presenza che l’ha accompagnata nel viaggio misterioso che stava compiendo. Fra lei e «la ragazza che non sapeva inginocchiarsi», ma che un giorno ha scoperto Dio sotto le macerie del proprio cuore, è nata così un’ intimità profonda. Grazie a questa simbiosi lo scandalo della speranza è diventato concreta e tangibile presenza dell’Amore. «Io sono qui». Sono gli occhi del malato a dirlo con la fermezza di uno sguardo che è diventato voce che arriva dal cosmo, permettendogli di comunicare. Se si volesse spiegare questa misteriosa comunicazione con metri razionali, si potrebbero avanzare solo ipotesi, chiamando in causa le risorse estreme della fisiologia di chi ha subito la tragica cesura che spezza all’improvviso un corpo in due tronconi, lasciando libere solo le funzioni cerebrali superiori. Potrebbero essere nuovi neuroni “specchio”, nuovi linguaggi e nuove forme di comunicazione, che si presentano come una sorta di “sincronicità” dell’altrove. Ma sono solo supposizioni, destinate a restare senza una risposta che oltrepassi le conoscenze umane, perché anche il grande mistero che ci avvolge ha le sue regole. Ha scritto il nostro padre Dante: «Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via /che tiene una sustanza in tre persone. / State contenti, umana gente, al quia;/ché, se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria». Quello che oggi resta e deve bastarci è contenuto in questo approdo in «terre estreme» in cui si perdono e si ritrovano gli sguardi. Un approdo che non è mai stato solitario, come avviene per molti familiari di chi è colpito dalla sindrome Locked-in, ossia del cancelletto chiuso. Chi ha scritto questo libro ha sempre avuto a fianco la condivisione di una famiglia che è andata allargandosi negli anni, «che ha imparato a respirare insieme, a soffrire insieme e insieme a sperare». E’ la famiglia degli «angeli del giorno e della notte» che sono arrivati da terre lontane, con il loro fardello di fatiche e di sradicamenti, ma con la spontaneità di una donazione oggi dimenticata, gli amici che hanno interrotto i loro impegni per essere di aiuto e sostegno, tutti coloro che «con gesti d’amore, con passione per la vita e dedizione all’altro» hanno continuato ad occuparsi di chi, come Giacobbe, è stato colpito dall’angelo perché potesse costruire una nuova terra. I loro sguardi e il loro gesti, uniti da una coralità naturale, sono diventati anche il respiro di questo libro. E qui mi fermo perchè è impossibile riassumere, senza sminuirne l’intensità, questa «Vita nuova» divenuta esemplare, dove ogni pagina e dettaglio sono un riflesso dell’altrove, compreso il mormorio di una natura che irrompe di continuo. Dove con Etty è possibile dire «la vita è bella», anche quando attraversa apocalissi come quella nazista o il dramma che si è annidato nella stanza sulla piazza. Perchè la bellezza può sfidare anche la morte. Come dimostra l’ultimo capitolo, dedicato alla luce catartica di Anacapri che ha permesso ad Etty e Mariapia, unite dalla stesso mistero, di uscire dal buio. Di ritrovare «il coraggio dell’esistere e dello sperare. Dell’amare». Giovanna Ioli
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