Magris un tempo per vivere

Dopo Svevo e Saba, Claudio Magris è il terzo triestino ad essere accolto nei Meridiani, due corposi volumi di cui ora esce il primo, «Opere» (Mondadori, pp. CLXIX-1680, euro 65,00), a cura di Ernestina Pellegrini, autrice di un bellissimo saggio introduttivo dal titolo «Claudio Magris o dell’identità plurale», di una minuziosa e vivace cronologia, arricchita dalla consultazione dell’archivio personale dello scrittore, e delle notizie sui testi, che documentano la ricezione italiana e straniera delle opere. Completano il volume un saggio di Maria Fancelli su Magris germanista e una bibliografia essenziale a cura di Luca Bani.

Questo primo volume comprende le opere scritte tra il 1963 e il 1994, «Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna» (1963), la sua tesi di laurea, «Lontano da dove» (1971), sul tema dell’esilio e dello sradicamento in Roth e Singer, «Illazioni su una sciabola» (1984), la sua prima opera narrativa, baracconesca odissea di un’armata di cosacchi in Carnia alla fine della Seconda guerra mondiale, «Danubio» (1986), tradotto in 25 lingue con grande successo internazionale, «Stadelmann» (1988), dramma che attinge alla biografia di Goethe attraverso il suo servitore, «Un altro mare» (1991), biografia romanzata di Enrico Mreule, amico di Michelstaedter, finito a fare il gaucho in Patagonia, «Il Conde» (1993), racconto lungo su un pescatore di cadaveri, «Le Voci» (1994), breve monologo. Rimangono esclusi, almeno per ora, «Dietro le parole» (1978), «Itaca e oltre» (1982) e «L’anello di Clarisse» (1984), dei quali è annunciata una scelta nel secondo Meridiano. Speriamo che ci ripensino, perché almeno il terzo, uno dei suoi libri più belli e più tipici, esemplare radiografia di un mondo senza centro dopo la frammentazione della totalità, collana di saggi memorabili su Hofmannsthal e Jacobsen, Hamsun e Walser, Rilke e Svevo, Musil e Canetti, Doderer e Singer, andrebbe riproposto integralmente.

La prima volta che sentii fare il nome di Claudio Magris risale alla metà degli anni Sessanta, durante un esame di letteratura russa all’Università di Torino con Clara Janovic, poi moglie di Vittorio Strada. Mi avventurai in un arduo confronto tra Cechov, Flaubert, Svevo e Kafka sulla concezione frammentaria e discontinua del tempo, e Franco Venturi, che assisteva all’esame affiancando la docente, s’incuriosì molto e mi suggerì la lettura di «Il mito absburgico» di Magris, che definì «un saggio geniale e unico». Non ho più dimenticato quelle parole e da allora lessi tutti i libri successivi di questo germanista, saggista, narratore, scrittore di teatro, traduttore, giornalista, «uno dei maggiori testimoni della nostra epoca alla deriva», come lo fotografa la Pellegrini.

Per Magris la letteratura è madre, moglie, amante, sorella, depositaria di affetti e valori, pallina magica che scorre nel fluire della vita e raccoglie gioie e dolori, grandi tragedie e attimi di felicità, risate e malinconie: «Per me conta la letteratura come vita, quei libri che entrano a far parte della nostra esistenza come le amicizie, gli amori, la felicità e le sventure e che, in questo senso, costituiscono una passione dominante».

Nel 1989 Magris così risponde all’inchiesta dal titolo «Perché scrivete?»: «Credo di scrivere anzitutto per l’impossibile desiderio di fermare in qualche modo la vita fuggitiva […] Si scrive inoltre per fare ordine, per sdipanare il confuso e approssimativo groviglio della realtà che ci invischia e ci stordisce; qualche volta ci si sente liberati e qualche volta si resta impigliati in una ragnatela ancora più ambigua […] Talora si scrive per difesa, per sgomberare e svuotare la realtà che ci soffoca, per erigere una barriera che la tenga a distanza. Altre volte si scrive per passione morale, per protesta e per rivolta, per dire di no a qualcosa di intollerabile. Spesso, forse, scriviamo per distrarci dalla incapacità di vivere, dalla paura, dalla mancanza di persuasione».

Il luogo ideale per scrivere è per lui il caffè San Marco di Trieste, uno dei posti più belli del mondo, il suo nido vero, dove si può pensare, scrivere, leggere, conversare, perdere tempo, uno spazio a forma di elle con tavolini di marmo, divanetti neri di pelle, boiseries e specchi déco, che emana una quiete di velluto.

Magris è un uomo di frontiera, e non è un caso che le sue città dell’anima siano Trieste e Torino, due luoghi periferici dove diventa sentinella attenta a captare l’insorgere del nuovo e i succhi della tradizione, la forza dell’utopia e la malinconia del disincanto, che non nasce soltanto dal fallimento delle ideologie, ma dallo sfacelo della società e del mondo. Respira e filtra la cultura dell’impegno e del rigore morale nella lezione di Gramsci e Gobetti, di Einaudi e di Bobbio, che correggono il clima sonnolento e la libertà zingaresca della città giuliana.

Tutti i suoi libri nascono da una felice ibridazione tra saggio e romanzo, in cui si percepisce una vena di goliardia e di sberleffo di impronta yiddish abbinata a una malinconia pensosa. In questo senso il suo capolavoro rimane «Danubio», diario di viaggio e autobiografia intellettuale, che insegue la mutevolezza e la fugacità del tempo nella stratificazione della memoria, dei personaggi, degli oggetti, lungo le anse del grande fiume. Si sente nella sua prosa, ondivaga e avvolgente, la freschezza del ragazzino, capace di emozioni ed entusiasmi nonostante i settant’anni superati, e la fermezza del saggio, una cultura sterminata che non pesa mai sulle spalle del lettore, e il suo rimane uno dei rari casi di professore universitario che si è liberato sin dagli esordi dalla zavorra dell’accademismo.

Ci piace concludere con questa osservazione di Raffaele La Capria, tra i pochi scrittori di vaglia ancora viventi, che definisce Magris «uno dei più brillanti rappresentanti di quel saggismo narrativo per cui il pensiero si fa racconto e le idee agiscono come personaggi».

Massimo Romano



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