La Primavera araba e l'autunno di Mubarak

Ennesima strage in Siria, lo scorso 26 maggio. A denunciarla per primi, come sempre, sono stati gli stessi cittadini, scaricando su internet le immagini riprese coi cellulari e condividendole col resto del mondo. A seguire, è arrivata anche la conferma ufficiale, ad opera del generale Robert Mood, capo degli osservatori dell'Onu, il quale ha condannato come «una brutale tragedia» il massacro avvenuto a Hula, nel quale sono state uccise 92 persone, fra cui circa trenta bambini. I funzionari delle Nazioni Unite, ha aggiunto il generale, «hanno confermato l'impiego dei cannoni dei carri armati».

Un’ulteriore riprova del fatto che il piano di pace negoziato dall’ex segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan, che prevedeva un “cessate il fuoco” teoricamente in vigore da più di un mese, non è mai stato seriamente preso in considerazione dal regime di Bashar al-Assad, che continua nella sua feroce azione repressiva, forte dell’appoggio internazionale di Russia e Cina.

Sia lo “zar” Putin che il regime di Pechino continuano a sostenere incondizionatamente il dittatore siriano, bloccando di fatto qualunque intervento occidentale, senza il quale le milizie della ribellione, per quanto rinforzate da sporadiche defezioni di una parte delle forze armate, non hanno la minima speranza di riuscire ad opporsi al regime, e men che meno di rovesciarlo. Il grosso dell’esercito è infatti saldamente sotto il controllo del dittatore e dei suoi famigliari, e ciò preclude qualsiasi possibilità di vittoria della fazione rivoluzionaria, inerme e forzatamente isolata dal punto di vista diplomatico, al di là dei rituali “moniti” e “richiami” che Onu e comunità internazionale rivolgono periodicamente al regime siriano, in maniera tanto retorica quanto inconcludente.

In effetti, la Storia ci insegna (e la cronaca ci conferma) che, nelle rivoluzioni, ideali e belle parole contano fino a un certo punto: quello che fa la differenza sono una solida organizzazione, appoggi internazionali, finanziamenti e, naturalmente, le armi. Lo dimostrano gli altri due casi emblematici della cosiddetta “primavera araba”, Egitto e Libia, che con modalità assolutamente opposte, ma ugualmente su base militare, hanno avuto e vivono tuttora vicende e destini ben diversi da quelli siriani.

L’Egitto è tornato al centro delle cronache proprio in questi giorni, con lo svolgimento del primo turno delle elezioni presidenziali, destinato a stabilire quali candidati si sfideranno nel ballottaggio previsto a metà giugno. Si tratta del terzo appuntamento di un programma elettorale lungo e tortuoso, iniziato nel novembre 2011 con l’elezione dei rappresentanti dell'Assemblea del popolo, la Camera bassa del Parlamento, e proseguito in un secondo momento con le votazioni per il Consiglio della Shura, ovvero la Camera alta. La platea potenziale è di circa 40 milioni di elettori, ma la complessità del percorso scelto ha già provocato una certa disaffezione nella popolazione, tanto che in questo primo round delle presidenziali ha votato solo il 50 per cento degli aventi diritto, una percentuale probabilmente destinata a decrescere ulteriormente al ballottaggio e decisamente deludente se confrontata con le aspettative suscitate dal grande movimento di popolo che aveva trovato la propria base, nonché la “vetrina” internazionale, nella centralissima piazza Tahrir, al Cairo.

Lo spoglio delle schede, proceduto lentissimo e farraginoso, ha confermato ciò che avevano annunciato i Fratelli musulmani subito dopo le due giornate elettorali del 23 e 24 maggio: i risultati ufficiali indicano che al ballottaggio la sfida sarà tra il loro candidato, Mohamed Mursi, che ha totalizzato il 24,8 per cento delle preferenze, e Ahmed Shafiq, che già aveva ricoperto incarichi di governo nell’era Mubarak, che ha raccolto il 23,7 per cento. Il ballottaggio si terrà il 16 e 17 giugno, ma intanto va registrato che dalle urne non traspare alcuna traccia di candidati di sinistra, laici o democratici che dir si voglia, che avrebbero dovuto essere l’espressione del movimento rivoluzionario di piazza.

L’esito del voto ha scatenato la rabbia del movimento, che ha iniziato ad occupare piazza Tahrir. Lunedì 28, circa 7 mila persone sono scese per le strade del Cairo e di altre città contestando Shafiq, il cui quartier generale è stato preso d’assalto provocando molti danni ma, per fortuna, nessun ferito. Il regime di Mubarak in realtà è stato rovesciato non dalle proteste del popolo, ma dall’intervento dell’esercito, che poi si è insediato al potere col capo delle forze armate Tantawi, la cui giunta militare ha poi represso i successivi moti popolari con una determinazione e una durezza persino superiori a quelle del regime precedente. E ancora oggi l’esercito sembra assai restio a cedere il potere, salvo forse nel caso dovesse prevalere Shafiq, ex pilota nonché comandante dell’aviazione militare egiziana, prima di diventare ministro di quella civile. Insomma, un uomo del vecchio regime che può dare garanzia di affidabilità anche a quello attuale.

Sulla sponda opposta, Mursi, ingegnere appartenente alla corrente politico religiosa dei Fratelli musulmani, parrebbe incarnare perfettamente quella sintesi fra pragmatismo e islam moderato che il movimento sventola come propria bandiera. In realtà si tratta di una soluzione di ripiego, dopo che il primo candidato era stato cassato dalla commissione elettorale, ed è stata la formidabile macchina organizzativa e propagandistica degli stessi Fratelli musulmani a consentirgli di prevalere in questa tornata elettorale e di arrivare al ballottaggio. Una macchina a sua volta oliata e sostenuta da cospicui finanziamenti esteri, in particolare da parte di Arabia Saudita e Qatar, quest’ultimo sede anche della televisione Al Jazeera, grande sponsor mediatico delle varie rivolte popolari.

Dunque, l’Egitto vedrà contrapporsi un rappresentante dell’ancien régime sostenuto dal potere militare dell’esercito contro un rappresentante islamista (moderato?) sostenuto dal potere finanziario degli stati del Golfo: tutte cose che hanno poco a che vedere con le iniziali rivendicazioni di diritti civili e democrazia che la “primavera araba” sembrava promettere, in maniera ingenua e velleitaria, anche se assai seducente per la visione superficiale e semplicistica di un Occidente distratto dalle proprie beghe finanziarie e da inconcludenti politiche alternate di “rigore” e “crescita”.

Del resto, quando lo stesso Occidente interviene più direttamente, le cose vanno addirittura peggio: è il caso della Libia, dove il regime di Gheddafi è stato violentemente rovesciato da una guerra civile sostenuta dall’intervento militare diretto di alcuni Paesi, Francia e Gran Bretagna in testa con una ondivaga Italia a rimorchio. La caduta del Colonnello è avvenuta in maniera tragica e traumatica, al prezzo di violenze sanguinose e contrapposizioni ben lungi dall’essere sedate anche ora che il vecchio dittatore è stato trucidato. I vecchi rancori e le divisioni fra tripolitani e cirenaici, fra ex (?) sostenitori del raiss e “rivoluzionari” formano tutt’ora una miscela esplosiva, con conseguenze collaterali che travalicano addirittura i confini del Paese.

Per rendersene conto, basta dare un’occhiata ai report di «Medici senza frontiere», la più grande organizzazione di soccorso umanitario mondiale: la sola sezione italiana dell’organizzazione ha investito quasi un milione di euro provenienti dal 5 x mille «per supportare le strutture cliniche e ospedaliere locali e sviluppare interventi di salute mentale a Misurata e in altre aree del Paese» dove «prioritario è stato il supporto psicologico alle equipe sanitarie non use ai drammi di un conflitto fratricida». Per la cronaca, «Medici senza frontiere» ha incontrato non poche difficoltà a operare nella caotica situazione del Paese, in condizioni che non sempre assicuravano la piena incolumità dei propri operatori. Al tempo stesso, l’organizzazione umanitaria ha dovuto occuparsi anche degli “effetti collaterali” del conflitto libico. Infatti, i mercenari del Mali al soldo di Gheddafi, una volta ritiratisi dalla Libia, non hanno trovato di meglio che scatenare un nuovo conflitto nel proprio Paese, sulla base di rivendicazioni territoriali nella regione nord da parte della minoranza tuareg.

Davvero dei pessimi sviluppi per una “primavera araba” che, senza aver conosciuto un’estate luminosa, pare avviata verso un mesto autunno e un gelido inverno.

Riccardo Graziano



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