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Dacia, il giardino dell’aldilà
E fa capolino spesso, come in filigrana, attraverso momenti, scene, racconti, la sua intenzione non dichiarata ma ben percepibile di “sensibilizzare”. Lo fa, per esempio, in maniera toccante quando parla del gesto di donare il sangue e, ancor più, di donare organi o, come nel vissuto che narra, un “pezzo di midollo” per un malato ignoto. C’è da commuoversi, e forse in questa partecipazione, al fondo, c’è un certo senso di festa, perché brillano gli occhi e ci si commuove quando, nel bisogno urgente e gridato ai cinque continenti, arriva la notizia che una sconosciuta giovane americana si è sentita in dovere di aiutare un malato, di cui non sa nulla, un ignoto che abita a migliaia di chilometri, al di là dell’oceano. Questa è sicuramente la festa della solidarietà. La Maraini ci apre la sua biografia, ce la fa condividere. La realtà del dolore incombe, è a lungo dominante, con fraseggi di lontani ricordi di casa, di intimità, di esistenze allegre e proiettate su orizzonti globali. Così, attraverso il filtro essenziale della memoria e del sogno, «nel giardino dei pensieri lontani» rievoca e incontra la sorella Yuki, il padre Fosco, Alberto Moravia, Giuseppe Moretti (l'ultimo compagno, scomparso prematuramente per una malattia crudele), l'amico carissimo Pasolini e un'inedita e fragile Maria Callas. Nelle molte scene e nei dialoghi che si susseguono sui “draghi” che attentano e minano lungo il cammino di ciascun uomo, di ogni famiglia, la Maraini passa da deliziosi spaccati di famiglia e di vita all’irruzione repentina e dura della malattia, alle ombre della morte. E si scopre come siamo uguali, fragili di fronte al dolore, soprattutto quello degli altri, delle persone malate che amiamo. Loro decise a vivere, gagliardamente attaccate ai giorni, agli incontri, alla convivialità, pronte a subire ogni strazio di cura. E noi così disarmati e impotenti, spettatori con soli doni di amore, di tenerezza, di vicinanza. Daria Maraini, nelle molte storie di dolore che l’hanno segnata e colpita, che cosa ha trovato di maggior aiuto per andare avanti? La fiducia in un futuro migliore, la cura della memoria, l’amore per la vita. Padre Turoldo diceva che il dolore è prezioso, soprattutto in un tempo che vuole eliminarlo. Ci fa scoprire risorse di solidarietà. E aggiungeva, comunque, che occorre combatterlo, indicando la sua personale resistenza. Concorda? Sono d’accordo con padre Turoldo, anche se non sempre il dolore migliora. A volte le persone vengono incattivite dal dolore e chiedono vendetta. Quindi si tratta, anche di fronte al dolore, di sapere capire con umiltà e distacco. Dalle esperienze vissute a fianco di ammalati ai quali ha voluto bene, pensa che il dolore fisico sia stato sconfitto? Magari si potesse sconfiggere il dolore così facilmente… La medicina corre, trova nuovi farmaci per vecchie malattie, ma intanto nascono nuove malattie e nuovi dolori. Quando si entra in un ospedale, sia come pazienti che come visitatori, si avverte immediatamente una sensazione di fragilità diffusa. Una scrittrice come varca quella soglia? Con l’indignazione. Che poi diventa storia e racconto, almeno per quanto mi riguarda. Capisco che chi deve vivere tutti i giorni in mezzo alle sofferenze e alla morte si crei delle difese, a volte anche meschine. Ma un buon medico dovrebbe mantenere intatto il suo rispetto per il malato. La sua interlocutrice nelle pagine del libro, Josepha, è molto drastica e definisce l’ospedale uno «strano inferno». È eccessiva o ha ragione? Josepha è una coscienza critica molto attenta e severa. Io sono più duttile e cerco sempre le eccezioni alla regola. Sempre secondo Josepha, «la dignità forse è la più alta forma di libertà». In quale considerazione è tenuta la dignità dei malati, al di là delle belle parole? Poca, purtroppo. E non si tratta solo del sistema ospedaliero, carente da tutti i punti di vista. Si tratta di una cultura, magari compassionevole, ma poco rispettosa. I malati, da quanto ho potuto capire, vengono trattati come bambini irresponsabili. Gli si dà del tu, gli si rimbocca le coperte, ma gli si tace la verità, e nel fondo li si considera un “vuoto a perdere”. Lei scrive con molta delicatezza che una persona può rappresentare per un’altra anche l’eternità. Che cosa si prova quando frana questo senso di eternità? Prima di tutto un senso di sorpresa e di paura. Poi si comincia a tentare una elaborazione del lutto. Ma spesso non ci si riesce. La memoria si impunta. Cominciano i sogni in cui vedi la persona sempre viva. Di fronte all’aldilà restano due soluzioni estreme, con poche illuminazioni: il nulla e il mistero. Lei che cosa sceglie e perché? Io credo nel mistero. L’essere umano ha un commovente desiderio di prosecuzione. Io mi fermo a quel desiderio che considero poetico e dolce. Che cosa le fa paura di questo tempo? L’arroganza, il razzismo, l’idea radicata che con le guerre si risolvano le questioni politiche. Come e dove è possibile ritrovare la speranza, quando usciamo devastati dal dolore che ci ha portato via uno tra gli affetti più cari? Bisogna imparare a essere un poco stoici. Sapere che siamo soli di fronte all’universo. Che tutto finisce e si rigenera, ma in modo sconosciuto e misterioso e quindi non controllabile, che siamo fragili e duriamo poco. Senza per questo smettere di credere nella sacralità dell’essere umano, nel rispetto verso ogni forma di vita sulla terra e nella gioia di vivere. Tutto passa e al termine del libro, accanto ad un Pascal un po’ quaresimale, che si interroga sulla piccola durata della vita, assorbita nell’eternità che la precede e la segue, troviamo la lieta immaginazione della Maraini: che giustamente si chiede se «non è abbastanza crudele la vita quotidiana perché non sia legittimato un sogno di pace nel dopo vita». Di là, quale che sia il credere di ciascuno, anche dei «fratelli atei nobilmente pensosi», come li chiamava Turoldo, ad attenderci c’è un colorito «giardino dei pensieri lontani. Un giardino soffice, fitto di alberi ombrosi, dove passeggiano leoni e cervi e orsi, senza mangiarsi l’un l’altro». Il giardino dell’aldilà. Giuseppe Zois
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