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Vivere senz’acqua lungo il GiordanoErano 300 mila, sono 56 mila, di cui la maggior parte beduini e pastori. Per lo più sono arrivati qui profughi, espulsi dal Negev nel ‘48. Sono quanto resta dei palestinesi della Valle del Giordano: 2.400 chilometri dalla linea verde al Mar Morto, ovvero il 30 per cento dell’intera Cisgiordania. Siamo in “area C”, la zona sotto totale controllo, amministrativo e militare, di Israele. Il 44 per cento della terra è inutilizzabile dai palestinesi a fini abitativi, perché dichiarata «zona militare», o, più precisamente firing zone, «zona di sparo». Qui, una persona (a patto che possa permettersi di pagare le alte tariffe praticate dalle compagnie israeliane) può disporre di 20 litri d’acqua al giorno, un quinto di quanto raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità, perché il Giordano è ormai poco più di un rigagnolo e i coloni israeliani, che vivono nei 28 insediamenti, controllano il 92 per cento delle risorse idriche (dati della Carovana per il diritto di accesso all’acqua, esperienza internazionale di solidarietà, che ha visitato la zona recentemente): il risultato sono vaste piantagioni di frutta, che finisce per il 90 per cento nei supermercati dell’Occidente. Senza dimenticare che, nel 70 per cento dell’area, ai palestinesi è vietato costruire; che, nella prima metà del 2011, 125 abitazioni e 20 cisterne per la raccolta dell’acqua piovana sono state distrutte dalle autorità israeliane; che 656 persone sono state private della casa; che sono in corso oltre tremila ordini di demolizione, di cui 18 minacciano scuole. Eppure è proprio qui che «resistere è esistere», come dice Lauren, giovane francese di Nantes, volontaria dell’organizzazione internazionale non-violenta «Jordan Valley Solidarity Movement», che vive qui da un paio d’anni, in una casa di mattoni di paglia e fango, proprio come quelle degli abitanti. E con loro, resiste. Passa dal dipanare chilometri di tubature per portare acqua dove l’acqua non c’è più, al costruire case e scuole (su quella nel villaggio di Ras al-Auja, dedicata a Vittorio Arrigoni, all'inaugurazione, lo scorso settembre, sventolava la bandiera italiana, ma è già stata abbattuta) in mattoni di fango e paglia, perché i materiali edili sono vietati, dall’aiutare manualmente chi vuole avviare un’attività, allevamento o azienda agricola, che sia, fino a cercare di coinvolgere i media, perché raccontino al mondo la storia di chi, prima di tutto, «è assetato di giustizia». È tenace Lauren, caparbia. Dietro al viso da ragazzina, c’è una volontà di ferro. Le sue parole sono un fiume in piena, proprio quello che in queste terre manca. Questi territori, secondo il mandato delle Nazioni Unite del 1948, sarebbero dovuti essere Palestina, ma dal 1967 (Piano Allon), dopo la vittoria della «guerra dei sei giorni» da parte di Israele, sono occupati militarmente. Quindi, il 44 per cento è area militare, un 50 per cento è occupato dalle colonie, il conto è presto fatto: ai palestinesi rimane il 6 per cento di una terra, ieri considerata il granaio della Cisgiordania, oggi praticamente desertica. I numerosi fiumi che scendevano a valle, da ovest a est, sono tutti prosciugati. Alvei sassosi e tristi rimangono a imperitura testimonianza della loro passata esistenza. Non è solo un deserto geografico, è anche un deserto d’anime. D’altra parte, chi se la sente di esporsi a una calura che spesso raggiunge i 50 gradi, senza poter bere? L’amministrazione civile israeliana requisisce le risorse idriche, confisca i serbatoi (tank), recinta i pozzi con alte reti metalliche (dei 162 situati lungo la linea del Giordano, disponibili agli abitanti dal 1967, oggi nessuno è più utilizzabile) e serra i rubinetti. La popolazione sente scorrere l’acqua sotto i piedi, ma non può usufruirne, vede i fili della luce passare sopra le proprie teste e non vi si può agganciare. Con Lauren a bordo, ci inoltriamo su una pista sterrata, aggiriamo i vari reticolati, in lontananza si scorge il confine con la Giordania, prima, la “fascia cuscinetto”, off limits ai civili, fino ad arrivare alla centrale elettrica e al deposito dell’acqua, circondati da un alto filo spinato. Intanto, superiamo qualche tenda, baracche in lamiera, un gregge, miseri segni di un accampamento di fortuna. Siamo ad Al Hadidiya, poco lontano da Nablus, dove vive poco più di un centinaio di beduini, la cui esistenza è appesa al filo degli aiuti internazionali, tra cui l’Unrwa (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso dei profughi palestinesi), l’Ocha (Ufficio di coordinamento degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite) e le organizzazioni di volontariato, che forniscono foraggio per armenti, acqua e, quando possibile, assistenza medica. Il villaggio è circondato dagli insediamenti di Ro'i e Beqa’ot (considerati illegali sia dal diritto internazionale, che dalla stessa legge israeliana). Sono vicinissimi, eppure sembrano, anzi, sono, un altro mondo: qui pietre e sabbia, là fiorente vegetazione. La Valle del Giordano è un esempio di area che resta assetata. Altrove gli sforzi per ampliare le possibilità di accesso all’acqua potabile stanno dando buoni frutti, «ma non possiamo fermarci qui. Il prossimo passo sarà il più difficile, raggiungere le persone più povere e svantaggiate». Il segretario generale Onu, Ban Ki-moon, ha commentato così i risultati, del Report Progress on Drinking Water and Sanitation 2012, realizzato nell’ambito del Joint Monitoring Programme for Water Supply and Sanitation Unicef-Who. Secondo il Report, alla fine del 2010, l’89 per cento della popolazione mondiale, circa 6,1 miliardi di persone, ha avuto accesso all’acqua potabile, ossia l’1 per cento in più rispetto all’88 per cento previsto dagli obiettivi di sviluppo. Il rapporto prevede, inoltre, che entro il 2015, il 92 per cento della popolazione mondiale avrà accesso a fonti migliorate di acqua potabile. «Abbiamo raggiunto un traguardo importante», ha concluso Ban Ki-moon. L’Assemblea generale Onu ha riconosciuto l’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari «come un diritto umano»; per questo, dobbiamo assicurarlo a ogni persona al mondo». Ecco perché anche la dodicesima edizione dell'European Green Week, la più grande conferenza sulle politiche ambientali europee, che si terrà a Bruxelles, dal 22 al 25 maggio, quest'anno è dedicata all'acqua. Romina Gobbo nostro servizio dalla Valle del Giordano
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