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Gli angeli di Gina LagorioGina Lagorio amava gli angeli, ricamati o di pizzo, dipinti o raffigurati in sculture di marmo o di parole. Più volte ha confidato agli amici più cari che quelle ali erano eredità della memoria, d’immagini e d’incontri che l’avevano sostenuta in tempi di solitudini e di abbandoni. In una lettera del 1979 a Carlo Betocchi i suoi angeli custodi assumevano i volti terreni della madre, «che cantava davvero sotto gli angeli barocchi della Madonna del popolo» o dei suoi poeti, Angelo Barile e Camillo Sbarbaro, «che sono stati buoni con me e mi hanno dato un aiuto d’intelligenza, di anima». Con queste premesse ci piace pensare che nove anni fa, il 17 luglio 2005, Gina Lagorio abbia alzato le vele guidata da ali «dritte verso ’l cielo, / trattando l’aere con l’etterne penne, / che non si mutan come mortal pelo». Dante descriveva così l’arrivo dell’angelo nocchiero che porta le anime destinate alla salvezza sulla riva di un mare inondato di luce. Chi ha conosciuto Gina sa quale fosse il suo amore per l’opera cui «pose mano cielo e terra» ed è per questo che il numero «nove» chiamato oggi a scandire la sua partenza è il più propizio per ricordare un anniversario di «vita nuova». Con lei si parlava spesso di Dante e il suo viso si accendeva, gli occhi sprizzavano lapilli e scandiva versi come una partitura musicale. Il suo era un amore mai riflesso da filtri filologici o altri orpelli, ma prodotto semplicemente dal piacere che le trasmetteva quella musica, quel suono, quel reticolo di significati orchestrati armonicamente oltre le parole, che lei interpretava con la stessa libertà riservata a persone di famiglia. Musica, cinema, poesia, amore, Giustizia e Libertà (iniziali anche del suo nome, impresse sull’anello che portava come un sigillo d’ideali che andavano ben oltre l’ideologia di un periodo storico determinato) erano le più grandi fonti di piacere di Gina ed erano sovranamente espresse da un poeta per lei insuperato. Questo spiega il suo posto regale anche in «Càpita», il libro che annunciava la sua morte (uscì postumo nel 2006), non certo per sfoggio di cultura (non era nelle sue corde che orchestravano la nobiltà e l’umiltà dell’eguaglianza), ma quasi per chiamarlo a partecipare, amico tra gli amici, al suo ultimo «convivio». In «Càpita», infatti, Gina componeva e chiudeva un cerchio perfetto, un montaliano «giro a tondo» cominciato con «Approssimato per difetto» (1971), dove con il marito moriva anche una parte di sé («lui, se n’è andato, l’odore del mare o il vento fra gli ulivi non lo intenerivano più, la sua morte è vera, il resto commedia»). La segreta speranza di «vita nuova», tuttavia, respirava nelle due epigrafi in apertura di romanzo: da Euripide la prima («Chi sa se il vivere non sia morire, e se il morire non sia quel che i mortali credono vita») e da Eliot la seconda, che ripeteva lo stesso concetto («Ciò che chiamiamo principio è spesso la fine e finire è cominciare»). In «Càpita» lei registra lo stato d’animo di chi presto saprà «se il vivere non sia il morire», ma prima di sciogliere l’enigma che in esso si annida, deve raccogliere ciò che resta e che, forse, continuerà a stringere con braccia fatte d’aria anche oltre quella soglia. In «Càpita», insomma, la laica Gina comincia a pensare all’altra possibile vita, alla sua «vita nuova», appunto, rinnovata dalla luce di una fede che sfugge alla ragione. Quel suo stato di «non praticante ma credente», con una «religiosità molto laica, molto personale», ma ancorata al Vangelo con i fatti, come disse don Luigi Ciotti al suo funerale, ci permette di immaginarla «nel reame ove gli Angeli hanno pace» e forse per questo nella sala di rappresentanza di Libera lui ha voluto mettere il suo nome e il suo volto come uno scudo contro l’oblio. Proprio lei aveva scritto che «perdere la memoria, rimuoverla, stravolgerla… è un crimine che non ha assoluzione. Il futuro può nascere solo da chi ricorda e la memoria è premessa di libertà». È proprio questa l’eredità che ci ha lasciato con tutte le corde della sua lira, compresa quella squisitamente musicale de «La memoria perduta», l’opera corale musicata da Flavio Emilio Scogna, dove affida questo compito alle generazioni future, perché il dolore del mondo non sia mai dimenticato, perché «nella memoria dei vivi / resti il suggello del sangue sparso / per avere giustizia». L’opera, ideata nel 1991 e realizzata due anni dopo, è stata rappresentata per la prima volta al Teatro Brancaccio di Roma nel 2002, portando in scena con chiaroveggenza il problema etico e politico dell’immigrazione («umane maree si spostano / come oceani sotto la luna»), perché la libertà e la dignità di quelle vittime, povere e innocenti, diventassero un canto armonico capace di innalzare al cielo il grido di chi soffre, «quello che risuona nell’indifferenza della storia» (atto II). Così Gina tesseva le sue «trame dell’utopia», convinta che il dolore è sempre «ingiusto / per gli innocenti», madri, bambini, «non nemici non diversi», ma mani che si uniscono in una «sola catena / umana sotto il cielo». Per ricordare la sua partenza verso un altrove, che lei immaginava popolato di questi e d’altri angeli, è in corso di stampa un volume dell’editrice Interlinea («Gina Lagorio. Respirare Piemonte») nel quale, oltre agli interventi di un recente convegno, sono state aggiunte nutrite appendici bio-bibliografiche e fotografiche. Sono soprattutto quelle immagini a rendere vive le parole di chi ha avuto la fortuna di incrociare la sua strada, perché rappresentano pienamente il sorriso di Gina alla vita, alla libertà di esercitare il proprio ingegno nella direzione della sua idea di giustizia. Citando la «Politica» di Aristotele, lei ripeteva spesso che quelli erano gli ingredienti della vera felicità e quell’ingegno seppe esercitarlo non solo nella quotidianità e nella letteratura, ma anche nell’impegno sociale, a fianco degli umili, sui banchi del Parlamento. Negli ultimi mesi di vita, prigioniera in un corpo che non rispondeva più ai suoi comandi, ha continuato a vivere in un’adamantina lucidità intellettuale ed è riuscita a riprodurre la trasparenza del sorriso anche sulle pagine di «Càpita». Disseccato ogni frastaglio inutile, ha scelto ciò che avrebbe voluto portare con sé nel suo viaggio. Oltre ai tre libri, la «Divina Commedia», «Guerra e pace», il Vangelo, che ormai facevano parte della sua persona, ha voluto elencare in modo indelebile («carta canta», diceva Baldini, un altro dei suoi amici poeti) anche i personaggi di quella letteratura degli affetti che le biblioteche non avrebbero potuto registrare. Così nel suo «libro della memoria» si affollano le «Caroline» (così chiamava le figlie, le nipoti e le amiche dell’anima) e tutti quelli che l’hanno aiutata a vivere e ad affrontare la rinascita nella morte, quella promessa alle anime nette come la sua: il congedo in piena regola di uno speciale «viaggiatore cerimonioso», come voleva Caproni. Me ne andrò, «ma una parte di me resterà fra queste mura, il tempo corre ma non cancella niente se continui a sentire e ad ascoltare i colori e i suoni, e a guardare gli occhi innocenti e i gesti dei bambini amati. Si va da soli, ma uno accanto all’altro nel vento che corre sul destino di tutti». Nel libro in corso di stampa si respira aria di Gina, soprattutto perché risponde al suo appello (ricordare… ricordare… ricordare). I suoi occhi di bambina faranno capolino tra le pagine, così le sue parole, la sua fame di vita, «non contenibile se non nello sgorgo della poesia» e i suoi sogni torneranno tra le persone da lei amate, perché «davano i sogni colore alla vita. / E tutto aveva senso, anche il dolore / erano i sogni sognati in libertà / la luce della vita» (atto I). Questa è la vera eredità che Gina ci ha lasciato, per aiutarci a navigare anche grazie al soffio delle sue parole: aria chiara popolata di angeli per la nostra minuscola e lacera vela. Giovanna Ioli
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