Prodi: ridurre le disegueglianze nella società

Uno dei tratti caratteristici dell’attuale sviluppo economico è l'accentuazione delle disuguaglianze. Un dato che si registra un po' dappertutto: sia in Europa, dove la crescita è scarsa, sia negli Stati Uniti, dove si sta avviando la ripresa, sia in Cina, dove l'economia è in forte ascesa. Indipendentemente dal tasso del Pil, si assiste ad una correlazione tra crescita e aumento delle iniquità sociali. E per di più, questa evidente stortura, che alla lunga penalizza la stessa economia reale, viene quasi considerata un automatismo: un prezzo da pagare alla cosiddetta modernità globalizzata.

Sfuggono, almeno parzialmente, a questo fenomeno generalizzato soltanto il Brasile, che negli anni di Lula ha svolto un’efficace politica redistributiva, e la realtà scandinava, area socio-culturale così particolare da non fare quasi testo. A fare il punto su questa situazione è intervenuto al Circolo dei lettori di Torino l'ex presidente del Consiglio e della Commissione europea, Romano Prodi, nell’ambito del ciclo di incontri «Economia e dignità umana».

A ben vedere questa correlazione tra sviluppo dell’economia e aumento delle diseguaglianze è cosa recente. «Fino ad un paio di decenni fa», spiega l'ex premier, «vi era, come logica vorrebbe, una diretta proporzionalità tra la crescita e il complessivo allargarsi del benessere sociale. Dal dopoguerra sino agli anni Ottanta le diseguaglianze si erano progressivamente ridotte, poi è arrivata l'ondata liberista, di marca thatcheriana e reaganiana, che ha imposto una dottrina per la quale non esiste la società, ma soltanto gli individui. E così, a catena, si sono svalutati tutti gli elementi solidaristici, a partire dalle imposte. Oggi si parla di imposte solo per ridurle, senza curarsi del livello di servizi da garantire ai cittadini. Seguendo il dogma della riduzione delle tasse si sono abbassate le aliquote per i redditi più elevati e, quasi dappertutto, si è abolita, o fortemente ridotta, la tassa di successione, accentuando così nuovamente il peso della famiglia di provenienza e de facto indebolendo il cosiddetto ascensore sociale».

In queste condizioni di minori entrate, e considerando che i tagli di spesa sono comunque molto difficili da realizzarsi, è stata inevitabile la progressiva esplosione del debito pubblico. In crisi è entrato anche il welfare e l'idea stessa di protezione sociale: la più grande conquista del XX secolo. Qui, poi, in nome del mercato, si assiste a vere e proprie mistificazioni. La più eclatante, e troppo poco evidenziata, è quella della sanità, nella quale da più parti soffiano venti di una, più o meno velata, privatizzazione. Eppure, conti alla mano, i sistemi pubblici sono economicamente più efficienti di quelli privati: la sanità pubblica europea costa mediamente il 7 per cento del Pil, mentre il modello assicurativo americano il 17. Dieci punti di Pil ingoiati dalle compagnie di assicurazione e dell'assistenza privata. E alla fine, in Europa ci sono comunque cinque anni di speranza di vita in più che negli Stati Uniti, dove la salute viene trattata come una merce qualunque e sottoposta alla legge della domanda e dell'offerta.

Ma non c'è solo la questione delle imposte e del welfare. Il problema più insidioso, e che in fondo è alla base anche della demonizzazione delle tasse, è la pressoché totale mobilità dei capitali, che in un'economia globalizzata tendono a spostarsi verso i Paesi a bassa imposizione. Così le classi politiche, un po' dappertutto, sono costrette ad insistere sui tagli fiscali per trattenere entro le mura domestiche i potenziali investitori. Ci sarebbe dunque da chiedersi se non sia il caso di regolare diversamente il flusso del capitale, e certo tutto cambierebbe se vi fosse una certa uniformità delle aliquote.

«A spiegare questo aumento delle iniquità sociali», sottolinea Prodi, «entra in gioco anche il progresso tecnologico: una variabile che sta determinando una nuova rivoluzione, come al tempo di quella industriale. Stiamo assistendo alla scomparsa, o quanto meno alla progressiva diminuzione, di intere categorie di lavoratori: dalle segretarie ai contabili, dagli impiegati bancari a quelli delle assicurazioni. Nel terziario, come già è accaduto nell'industria, servono sempre meno persone e ciò determina l'impoverimento del ceto medio. Siamo di fronte ad una svolta epocale che crea forti cali occupazionali. La stessa crisi che colpisce le classi medio-basse risparmia in modo evidente le fasce alte della società. La forbice retributiva si è ampliata a livelli scandalosi. Se un tempo il rapporto tra il salario medio di un lavoratore e quello dell'alta dirigenza era di uno a trenta, oggi siamo a uno a quattrocento. Oltretutto i bassi salari, uniti alla precarietà lavorativa, creano una contrazione dei consumi e il sistema economico non riesce a ripartire».

Sorge allora una precisa domanda: come si è comportata l'Europa per arginare questi fenomeni tanto deteriori? Intanto deve essere ben chiaro a tutti che un'Unione più coesa a livello politico potrebbe reggere assai meglio alle spinte di una certa globalizzazione selvaggia che non ventotto singoli Stati in concorrenza tra loro. Il fatto è che l'Europa, oggi come oggi, può fare ben poco. Con un bilancio che vale l'1 per cento del Pil complessivo dei Paesi che la compongono, l'Unione non ha la capacità di distribuzione tipica di uno Stato federale che normalmente giunge ad una quota del 20-30 per cento. Per correggere radicalmente la rotta occorre dunque irrobustire il bilancio comune fornendogli le leve per svolgere una politica economica sovranazionale. La questione centrale è sempre quella: oltre alla moneta unica si deve creare un'unione politica ed economica, con quegli indispensabili meccanismi di solidarietà finanziaria che, attivati in tempo, avrebbero protetto la Grecia con soli 30 miliardi senza dar tempo alla speculazione di agire facendo lievitare la somma necessaria per il salvataggio.

Di fronte alla crisi, peraltro da loro provocata con i famigerati subprime, gli Stati Uniti hanno iniettato ben 800 miliardi di dollari nella loro economia, che non a caso si sta riprendendo. Prodi nota il paradosso che il Paese liberista per eccellenza «abbia usato pesantemente la leva pubblica per riavviare la crescita, mentre noi europei ci siamo invece legati mani e piedi al vincolo del 3 per cento del deficit. Un limite che ha senso in tempi di espansione economica, ma che diviene un vincolo insostenibile in caso di recessione. Gli euroscettici incolpano l'Unione, ma in realtà serve più, e non meno, Europa. E' giunto dunque il momento di cambiare strada, e si tratta di convincere la Germania a farlo. Gli altri partner europei, Italia in testa, debbono prendere ad esempio proprio il modello tedesco, caratterizzato da un sistema produttivo di grande qualità, sostenuto da mano d'opera tecnicamente qualificata. Ecco allora la necessità di investire nella scuola e nella formazione, sottraendo queste spese al capestro del 3 per cento. Questo è il cammino che servirebbe nei prossimi anni. Il neo presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, è stato paradossalmente rafforzato dal veto britannico, anche perché è ormai evidente che Londra non parteciperà ad ulteriori passi avanti nell'integrazione. La Gran Bretagna vuole andare per conto suo? Faccia pure. I Paesi dell'euro devono proseguire fornendo alla moneta unica gli strumenti di bilancio e tributari che oggi le mancano e che ci stanno mantenendo in mezzo ad un pericoloso guado, rispetto al quale gli euroscettici ci vorrebbero far camminare a ritroso. Altrimenti l'Europa sarà come l'Italia nel Rinascimento, un faro di cultura ma una nullità sullo scacchiere politico».

Aldo Novellini



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