La vittima di Sarajevo voleva la pace

Franz Ferdinand: che era costui? Credo che pochi personaggi storici siano pressoché sconosciuti al grande pubblico quanto Francesco Ferdinando d’Asburgo, nonostante l’importanza del ruolo che, sia pure contro la sua volontà, egli giocò un secolo fa, alla vigilia del primo conflitto mondiale. Nato nel 1863 e nipote di Francesco Giuseppe, la prematura scomparsa del principe ereditario Rodolfo lo aveva destinato a succedere allo zio, ma cadde ucciso a Sarajevo, il 28 giugno 1914, sotto i colpi sparatigli da un irredentista serbo. È l’episodio oggetto di un’iconica copertina della «Domenica del Corriere», nella quale il grande Achille Beltrame immaginò con efficace realismo l’arciduca in carrozza colpito a morte insieme alla moglie Sofia.

Roberto Coaloa, da solerte studioso dell’universo austroungarico quale già si era manifestato per l’eccellente biografia di Carlo I, affronta in «Franz Ferdinand. Da Mayerling a Sarajevo» (Parallelo 45, pp. 365, euro 12,00) la complessa e tutt’altro che univoca figura di Francesco Ferdinando, la cui repentina scomparsa aprì il baratro della Prima guerra mondiale e condannò a morte l’impero.

L’autore è fermamente convinto, e lo sono anch’io, che l’arciduca assassinato «avrebbe potuto salvare la Duplice monarchia», grazie a un lungimirante disegno di stampo federalista che avrebbe posto Croazia, Slavonia e Dalmazia sotto la corona asburgica, come terzo Stato autonomo e alla pari con Austria e Ungheria. Accanto al trialismo, l’arciduca perseguiva l’obiettivo di potenziare la marina in modo da fronteggiare adeguatamente la flotta italiana. Vero è che fra il settembre 1915 e il dicembre 1916 tre navi da battaglia italiane saranno distrutte (la Regina Margherita a causa dell’urto con due mine all’uscita del porto di Valona, la Benedetto Brin e la Leonardo da Vinci ad opera di sabotatori), ma la scomparsa dell’arciduca aveva privato la Kriegsmarine dell’elemento propulsore. La sua funzione durante il conflitto fu ridotta a mera azione di supporto scarsamente incisivo, culminata negativamente, nel giugno-novembre 1918, con l’affondamento, da parte dei Mas italiani, della Viribus Unitis e della Szent Istvan, corazzate modernissime e orgoglio dell’Imperial regia marina.

L’interesse per le forze armate, e segnatamente per la marina, non implica tuttavia che l’arciduca fosse un guerrafondaio. C’è in proposito un documento altamente significativo cui Coaloa dà il giusto rilievo. È la lettera che nel settembre 1908, in piena crisi bosniaca, Francesco Ferdinando inviò al conte Alois Lexa von Aehrenthal, ministro degli Esteri dichiaratamente pacifista, e in antitesi al bellicismo esasperato del feldmaresciallo Franz Conrad von Hötzendorf, capo di Stato maggiore dell’esercito. «Io sono del tutto dell’opinione dell’E.V. di non lasciar accadere nessuna guerra», scriveva l’arciduca con risolutezza. «Noi non abbiamo da trarre da essa alcun vantaggio e mi sembra davvero che questi cani ringhiosi dei Balcani siano eccitati dall’Inghilterra e forse dall’Italia per spingerci ad un passo bellicoso prematuro. Io credo che sia molto bene di far parlare con grande energia i nostri rappresentanti a Belgrado e soprattutto a Cettigne, ma che debbano assolutamente essere evitate tutte le guerre, mobilitazioni, spostamenti di truppe, etc. Io sono anche completamente d’accordo con Lei nel temperare lo spirito del buon Conrad».

Nel 1908 Francesco Ferdinando era coinvolto in modo sempre più impegnativo nelle vicende politico-militari della Duplice monarchia. Le sue responsabilità erano andate crescendo all’indomani della tragedia di Mayerling (1889), quando la morte violenta del cugino Rodolfo e la rinuncia ai diritti di successione da parte del padre Carlo Lodovico (fratello minore di Francesco Giuseppe) lo avevano automaticamente designato come erede della corona asburgica. Ovvio che dovesse cercarsi una moglie di rango adeguato, in modo da garantire la prosecuzione della dinastia. Coaloa ricostruisce tutta la vicenda senza nascondere una profonda simpatia per i due attori principali. Nel 1895, mentre era ospite a Praga dell’arciduca Federico, futuro comandante supremo dell’esercito austro-ungarico, Francesco Ferdinando si era innamorato della 27enne contessa Sofia Chotek, avvenente dama di compagnia dell’arciduchessa Isabella. La scelta non poteva essere migliore dal punto di vista sentimentale, e al tempo stesso la meno fortunata ai fini dinastici. Sofia infatti era di nobiltà antica, sì, ma non abbastanza illustre per poter aspirare al matrimonio con l’erede al trono.

L’opposizione alle nozze da parte del vecchio imperatore e degli ambienti di corte fu tenace, ma ancor più ostinata fu la volontà di Francesco Ferdinando. L’arciduca ottenne l’autorizzazione, pur se a umilianti condizioni: fu un matrimonio morganatico, che impediva a Sofia di condividere titolo, rango e privilegi del marito, escludeva la discendenza dalla linea di successione e in pratica emarginava la coppia in una sorta di “periferia sociale”. Lo strumento ufficiale fu firmato in pubblico alla Hofburg il 28 giugno 1900, quattordici anni esatti prima delle rivoltellate a Sarajevo. Alla sposa fu concesso il titolo di principessa (dal 1909 duchessa) di Hohenberg, e quel predicato passò ai figli Sophie, Maximilian ed Ernst, sfiorati da quella Storia di cui gli sfortunati genitori erano stati loro malgrado protagonisti.

Completa questo volume una serie di note illuminanti su uomini e fatti degli anni presi in esame: sono cinquanta pagine che rendono la lettura del libro particolarmente appetibile anche al comune lettore.

Giorgio Gualerzi



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