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Dialogo fra le due animeUn meraviglioso libro sull’amicizia, un dialogo tra due grandi anime, che non ha nulla di sciropposo o sentimentale, ma è pieno di sintonie, asprezze, passioni, scontri, affinità culturali, incomprensioni, duelli di intelligenza e di sensibilità, brevi litigi, immediate riappacificazioni. Un libro che si vorrebbe non finisse mai, come uno di quei grandi romanzi dell’Ottocento che ci seducono a tal punto nella lettura da volerne procrastinare il più possibile la fine. Questo è il carteggio tra Claudio Magris e Biagio Marin, «Ti devo tanto di ciò che sono» (Garzanti, pp. 406, 18,60 euro), a cura di Renzo Sanson, che avrebbe meritato dall’editore una copertina con i due nomi affiancati, su un piano di parità, e non uno in alto e l’altro in basso, ma, si sa, nella prospettiva miope del nostro tempo, i morti contano assai meno dei vivi. Tanto più che il carteggio è composto di 264 lettere, di cui quasi i tre quarti sono di Marin (194) e il resto (70) di Magris, scritte tra il 1958 e il 1985. Un’amicizia nata a Trieste e durata trent’anni, dal 1955, quando Magris aveva 16 anni e frequentava la seconda liceo e Marin ne aveva 64 ed era impiegato come bibliotecario alle Assicurazioni Generali, al 1985, quando il poeta si spegne a Grado all’età di 94 anni. Magris si rivolge a Marin come «all’unico vero maestro che io abbia incontrato» e il poeta di Grado gli risponde di essere solo «un fratello maggiore, invecchiato». Dopo la maturità nel ’57, su consiglio di Giovanni Getto, presidente di commissione, il giovane Magris si trasferisce a Torino per iscriversi all’università, fa esperienza della solitudine, della difficoltà di ambientarsi. Ha appena vent’anni, ma affiora già il talento del futuro scrittore, come si vede in questa lettera dell’8 febbraio 1960: «Da ieri nevica, e Torino è grigia e vuota come una città di certi racconti russi, senza calore né umanità». Il poeta lo rassicura, è prodigo di consigli, gli dice di non dissipare il suo tempo in distrazioni mondane, perché quello che conta è «la vita interiore», gli dà fiducia e calore: la tua giovinezza, gli scrive, «è come un raggio di sole nuovo sulla mia vecchia anima», lo invita a essere «uomo intero e pugnace in questo paese di smidollati, di faccendieri, di idolatri della peggior specie». E’ convinto che con la sua intelligenza e il suo impegno raggiungerà i più alti traguardi e lo chiama con un’espressione bellissima, «figliolo d’anima», perché avverte in lui una compensazione alla perdita dell’unico figlio maschio, Falco, morto in guerra nel 1943 a soli 24 anni. Tra il vecchio poeta e il giovane studente c’è quasi mezzo secolo di differenza, ma li accomuna la radice triestina e asburgica, lo sguardo periferico e obliquo sulla società e sulla cultura italiana. Marin si sente «uomo dell’Ottocento»: «Di quel secolo ho il ritmo interiore, gli interessi spirituali» e «darei tutte le automobili di questo mondo per un Fichte, per un Goethe». Magris ha assorbito dal suo maestro «il senso religioso della vita come creatività di valori, cioè come realizzazione del dialogo, di un incontro, di una fusione». Nelle lettere e nei loro incontri a Trieste e poi a Grado, dove il poeta si trasferisce dal ’69, i loro dialoghi sono costellati di scontri e di condivisioni. Col passare degli anni Marin, carattere forte, prepotente, egocentrico, duro ma anche generoso, incapace però di umorismo e ironia, si sente spesso trascurato dal suo giovane allievo, che si sta affermando sempre di più nella società letteraria come grande germanista e intellettuale di punta, gli rimprovera «quella disinvoltura di ragazzo», l’eccesso di energia che spende nella sua attività accademica e letteraria. Magris gli ricorda tutto il suo affetto, non scalfito dal tempo, e la sua intensa amicizia, il fatto di aver ricevuto da lui serenità, fiducia, equilibrio, armonia: «Sei l’unico padre che ancora abbia (e ho tanto bisogno di padri, di guide, di maestri!), l’unico cui possa attingere forza, verità, salute». Il vecchio poeta di Grado si scioglie di fronte a queste affermazioni, ma poi lo inchioda con una frase stupenda che non ammette replica: «E tu mi sei lontano, perché nessun vivo può partecipare al morire di un altro, per quanto caro gli sia». Marin si sente «isolato e ignorato», teme che la sua poesia venga dimenticata dopo la sua morte, anche se è consapevole del suo valore: «Io ho creato dal nulla un linguaggio e un mondo, per quanto piccolo», «ci sono tra le mie liriche dei cristalli puri, di assoluta trasparenza». Non si sente inferiore a Giotti e Noventa, molto più apprezzati di lui, o a Betocchi e Caproni «che hanno avuto tutti i premi possibili», ed è scettico di fronte al Nobel a Montale, un poeta letterato. Magris cura due o tre antologie di suoi versi, tra cui il bellissimo «La vita xe fiama», edito da Einaudi nel 1970 con la prefazione di Pasolini, versi «di una lucidità che sfiora il sublime», come scriverà Arpino recensendo il libro su «La Stampa» e colmando di stupore il poeta di Grado, che pensava di essere apprezzato soltanto in una dimensione regionale. Marin scrive nel ’74, con straordinaria lucidità: «La mia fiamma si sta spegnendo, anzi non esiste più: ciò che è rimasto è solo la cenere ancora calda, che nasconde qualche brace. E tra gli uomini già mi sento fuor di posto, a disagio, e ho pudore e quasi rimorso del mio ingombrare la vita altrui». Il vecchio poeta dormirà sonni tranquilli nelle coltri dell’eterno, protetto da quel Dio che ha sempre amato, avendo come viatico quell’affermazione intensa e sincera del suo amico Claudio, messa opportunamente come titolo di questo volume, «Ti devo tanto di ciò che sono», tratta da una lettera del 5 agosto 1983. La sua poesia è una musica in sordina che sa cogliere l’incanto e la grazia della vita, con quelle immagini sempre ripetute nel dialetto di Grado, un veneto quasi medioevale: la biavità (azzurrità) del cielo e del mare, la linea dell’orizzonte, il volo dei gabbiani, le conchiglie nascoste nella sabbia. Il suo nome, Marin, fa pensare al mare, quello che vedeva dal balcone della sua casa di Grado: «A volte un omo cage,/una vita xe rota,/su più lontane spiage/una barca xe in seco, imota./Nissun sa la so rota,/nissun sa la so rada». («A volte un uomo cade,/una vita è rotta,/su più lontane spiagge/una barca è in secco, immota./Nessuno sa la rotta,/nessuno sa la rada…»). Massimo Romano
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