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L'Italia dell'orroreLa tempesta è arrivata quando già da mesi, anzi da anni, si ragionava sull’Italia del terzo millennio come di un Paese senza più regole, senza più etica condivisa, senza più ricerca del bene comune, senza più rispetto dei diritti naturali, all’insegna dei desideri che diventano a loro volta diritti codificati da una politica ridotta all’insignificanza ideale e piegata agli interessi materiali di questo o quel ceto, e con la finanza, pubblica e privata, fiscale o speculativa, come unica guida dell’economia. Ma la tempesta era dietro l’angolo di quella che una volta si chiamava cronaca nera. Chi l’ha conosciuta, e l’ha raccontata, sa che nella cronaca nera c’è tutto l’ingorgo peggiore possibile dei sentimenti, dei bisogni sessuali o di altra natura, delle volontà espresse o inespresse, premeditate o frutto di impulsi immediati e irresistibili, degli uomini; ma c’è anche, per fortuna, l’impegno di chi è chiamato a fare giustizia, non criminale, mafiosa o camorristica, ma secondo le leggi. In questi giorni in Italia non si parla d’altro, sui media e in casa, fra amici e nei bar, della scoperta e della resa dei conti con il presunto assassino della giovanissima Yara, uccisa quasi quattro anni fa; e della confessione di un crimine orrendo, l’assassinio della moglie e dei due piccoli figli da parte di un giovane che «non ne poteva più di quella vita di famiglia sentita come una gabbia», e cercava la soddisfazione di un altro amore, peraltro negato da una collega di lavoro. In queste due storie c’è proprio tutto quello che si può immaginare nella cronaca nera di un Paese in cui il tradimento coniugale sembra collidere perfettamente con la corruzione politica e amministrativa: si può fare tutto quello che si vuole, purché nessuno sappia niente. Il presunto assassino di Yara è il figlio a lungo “ignoto” di una donna che quarantaquattro anni fa lo diede alla luce, con una gemella, come frutto del rapporto illecito con un uomo sposato con un‘altra donna, morto da quindici anni. Per scoprire quell’”ignoto” i carabinieri hanno usato il sistema d’indagine (di cui parla il giurista Mario Chiavario in seconda pagina) fondato sulla ricerca del Dna su addirittura diciottomila persone, uomini e donne nel circondario di Brembate, la cittadina brianzola dove avvenne il 26 novembre del 2010 la scomparsa della tredicenne Yara Gambirasio, ritrovata cadavere tre mesi dopo in un campo vicino a casa. La scienza identificatrice ha lavorato molto bene, così almeno si spera, e ora abbiamo davanti a noi un uomo sposato, padre di tre figli, Massimo Giuseppe Bossetti, che ha avuto il «coraggio» di aggredire, violentare, ferire e abbandonare moribonda una ragazzina che a poche centinaia di metri dalla propria abitazione frequentava una palestra con la gioia ridente e tipica di quella età innocente. Innocenti erano anche i figli dell’assassino di Motta Visconti, altro piccolo centro lombardo, il laureato in economia e commercio Carlo Lissi: una bambina di cinque anni e un bambino di venti mesi, assassinati a colpi di coltello mentre dormivano, dal padre che aveva appena ucciso con la medesima arma, poi gettata in un tombino, la moglie Cristina, dopo un ultimo rapporto sessuale con lei. Carlo Lissi ha trentun anni, sette in meno della consorte. Chi lo conosce lo descrive come un «piacione», allegro, disinvolto, che ultimamente non mascherava la sua noia per quella esistenza. A chi lo interrogava ha detto: «L’ho fatto perché non avevo il coraggio di chiedere a mia moglie di separarci, cosa che io invece volevo fare». «Non le bastava il divorzio?», gli ha chiesto il magistrato inquirente. «No, con il divorzio i figli restano». Ecco, questo è lo spirito con cui l’Italia di oggi sembra socialmente avviata al proprio declino, troppo poco avvertito a ogni livello: su tutto si devono fare i conti materiali, quello che importa sono i soldi (si legga il recentissimo libro di Ugo Biggeri, presidente di Banca Etica, «Il valore dei soldi», edito dalle Paoline). Non siamo vittime di un pregiudizio antieconomico, siamo ancora dentro quella fascia di opinione pubblica che cerca di ispirare la propria esistenza a norme antropologiche di una tradizione religiosa in calo continuo. Si osserverà che crimini come quelli che nello stesso giorno hanno occupato brutalmente giornali, televisioni, radio e social network sono sempre avvenuti, la violenza non è mai mancata, in tutti i ceti sociali. Ma non si negherà che il massacro continuo delle donne non è mai stato così intenso, e così dicasi per le stragi di bambini, figli propri o altrui. Se poi si cerca di capire come certe cose possano avvenire, occorre riflettere su come Carlo Lissi ha passato le ore immediatamente successive alla sua strage. Ha assistito con un gruppo di amici alla partita dei Mondiali di calcio fra Italia e Inghilterra, si è entusiasmato per le reti di Marchisio e Balotelli, ha scherzato, ha fatto tardi nella notte. Una volta rincasato ha cercato di completare l’alibi spogliandosi nella taverna della villetta, ripulendosi, rivestendosi e poi aprendo la cassaforte di casa (vuota) e rovesciando alcuni cassetti per simulare una rapina. Dopo l’interrogatorio-confessione ha chiesto ai giudici di infliggergli «il massimo della pena». Incoscienza? Raptus? Infermità mentale? Vedremo come si difenderà nel processo. Certo, quella notte a Motta Visconti non sarà dimenticata tanto facilmente da chi vive in questo angosciante Paese del 2014. Beppe Del Colle
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