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Dignità ferita e offesa
Abbiamo già segnalato su queste colonne, nell'aprile 2012, il libro di Robert Spaemann «Tre lezioni sula dignità della vita umana» (ed. Lindau), un libro di cui confermavamo l'interesse ma in merito al quale notavamo come insistere sulla dignità come dono, come qualità connaturata con l'essere umano, lasci in ombra un altro aspetto del problema, per noi fondamentale, e cioè l'idea della dignità come azione, comportamento, conquista. Su questo tema giungono ora altri due libri: essi colmano i vuoti ed ampliano il terreno della ricerca. Il primo, di Michael Rosen, «Dignità. Storia e significato» (trad. it. di Francesco Rende, Torino, Codice edizioni, euro 11.90; l'ed. in inglese è del 2012), se contiene nei primi capitoli informazioni spesso abbastanza note sul tema della dignità quale è sviluppato nella legislazione novecentesca (ad es. nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, o nella legge fondamentale della Repubblica federale tedesca del 1949), in altre pagine svolge argomenti ben più interessanti, sia che si soffermi su quanti hanno visto scetticamente nell'elogio della dignitas una sorta di comodo alibi, di gradevole lusinga dell'umana autostima (per Nietzsche, ad esempio, la cosiddetta dignità del lavoro è solo un modo di rendere attraente una vergognosa necessità), sia soprattutto nelle pagine in cui, alla luce soprattutto di Kant e di Schiller, ha visto nella dignità non un diritto ma un dovere, il compito precipuo di ogni singolo uomo, ben al di là quindi di quanto afferma il teologo Jurgen Moltmann, il quale continua ad asserire che «la dignità di ogni essere umano è radicata nel suo esser stato creato a immagine e somiglianza di Dio» («On human Dignity», 1998, pp. 316). Per Kant rispettare l'altrui dignità è un dovere perché ogni essere umano ha un valore intrinseco e assoluto, il suo fondamento è nel concetto di autonomia e la sua traduzione comportamentale è nell'idea di rispetto. Schiller aggiunge a queste riflessioni il concetto di grazia: per lui, «la persona che agisce con grazia non fa solo la cosa giusta, ma la fa senza alcun tipo di conflitto interiore o di dubbio». La dignità, così, acquista una sorta di qualità estetica, consiste nella tranquillità nella sofferenza. Questa riflessione ci dà lo spunto per passare all'esame di una seconda pubblicazione, il saggio di Eugenio Borgna «La dignità ferita» (Milano, Feltrinelli, euro 17). E' un libro di grande bellezza, attraente, complesso ma anche percorso da una suggestiva vena poetica. L'autore, primario di Psichiatria, docente all'Università di Milano, già autore di saggi ben noti (ricordiamo la «Malinconia» del 1992 e «La solitudine dell'anima» del 2011) affronta in queste dense pagine un argomento che di solito sfugge ai trattatisti dell'umana dignità: lui non parla né della dignità come dono e diritto, né della dignità come kantiano dovere morale: parla della dignità quale è stata lacerata e offesa nel corso della storia e quale, soprattutto, viene ferita quotidianamente dalle sofferenze, dal male, dal dolore, dall'angoscia, dal pensiero della morte. A tale zona d'ombra l'autore contrappone, per altro, la luce della speranza, dell'umana comprensione, della fraterna vicinanza, e anche di comportamenti definibili come mitezza, gentilezza, condivisione, solidarietà nel dolore come nella gioia dell'attesa. Parte, anche questo studioso, da quanto scrive Simone Weil, per la quale l'ombra e la grazia sono figure di indicibile profondità umana e metafisica: l'ombra come dolore, tristezza, dignità lacerata, la grazia come fonte di luce e di leggerezza, come apertura all'infinito e dignità riscattata. La dimensione umana e professionale (medica) del libro di Borgna è anche straordinaria: vi si parla della connessione tra dignità e psichiatria, della «dignità del corpo malato» oppure, alla luce di quel che scrive Romano Guardini, si definiscono i compiti del medico, compiti che consistono in special modo nel «difendere fino in fondo la dignità dei pazienti» e che sono, quindi, non solo scientifici e professionali, ma anche e soprattutto etici: il malato si affida al suo medico con piena fiducia, ed è una fiducia che non va tradita. Affiora in queste pagine anche un'altra convinzione, quella secondo cui nello stato di malattia emergono gli strati più profondi dell'essere umano: non c'è conoscenza, già diceva Eschilo, senza sofferenza, mentre la buona salute a volte sembra corrispondere a una qualche povertà sul piano dell'anima. Ricchezza del dolore, se si sa scavare al di là dell'apparenza: la dignità ferita forse è una strada privilegiata, che va necessariamente percorsa se si intende approdare al senso vero dell'esistere. Difficile riassumere queste intense e affascinanti pagine: le numerose citazioni tratte da testi poetici (ad esempio da Rilke, dalla Dickinson, da Hesse, da Corazzini) ne accrescono l'eleganza e conferiscono ad esse, potremmo dire, una sorta di letteraria perfezione. L'autore è un medico, è un illustre psichiatra, ma ha l'animo di un poeta. Lionello Sozzi
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