Via da una scuola che non sa aiutare

Fuori dal mondo del lavoro e fuori dalla scuola. Sono sempre di più i ragazzi italiani che lasciano gli studi. Non solo dopo la maturità, ma anche prima della fine della scuola dell’obbligo. E i dati oggi sono allarmanti: più di tre milioni di persone. L’emergenza educativa italiana ha ormai toccato il fondo.

Un fenomeno con cui ormai è inevitabile fare i conti, perché l’Europa, nell’ambito della Strategia 2020, ha stabilito un tasso di abbandono scolastico inferiore al 10 per cento per i Paesi membri dell’Unione. Un obiettivo che per ora sembra davvero irraggiungibile. Gli ultimi dati del ministero dell’Istruzione parlano infatti di un tasso di abbandono pari al 17,6 per cento: un numero preoccupante che in termini assoluti indica che negli ultimi dodici mesi sono stati ben 758 mila i giovani che hanno lasciato prematuramente la scuola. Il dato è comunque in calo rispetto al 2011, quando i “dispersi” erano 787 mila, 29 mila in più. Il fenomeno, inoltre, è diffuso soprattutto al Sud e tra i figli degli immigrati (con numeri quasi doppi rispetto agli italiani).

La situazione viene presa in esame anche da un rapporto del periodico «Tuttoscuola», recentemente presentato in Parlamento. «Uno studente disperso ha maggiori difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro, è meno professionalizzabile e impiegabile, ha più probabilità di essere destinatario di costosi interventi assistenziali, è più esposto al lavoro sommerso e illegale», si legge. Ma oltre agli effetti socioeconomici ci sono conseguenze sui diritti sociali, primi tra tutti quelli di cittadinanza, che si acquisiscono attraverso l’istruzione e che vengono negati dall’intreccio tra disagio sociale e dispersione scolastica.

La dispersione, inoltre, viene considerata come una delle cause principali dell’elevato numero dei Neet, i giovani che non studiano e non lavorano, che ormai hanno superato i due milioni. «Non sarebbero così numerosi, se almeno una parte di essi avesse continuato a studiare o a seguire corsi di formazione professionale, come avviene in altri Paesi d’Europa», spiegano i ricercatori di «Tuttoscuola».

La Commissione cultura della Camera ha avviato in questi giorni un’indagine per conoscere meglio e contrastare il fenomeno, proponendo nuove strategie basate sulla prevenzione attraverso l’inclusione. Un tentativo di frenare il fenomeno è stato messo in campo intanto dal ministero dell’Istruzione, che a febbraio ha lanciato un bando da 15 milioni di euro. Risorse che saranno utilizzate per finanziare progetti di didattica integrativa e innovativa e per consentire l’apertura pomeridiana delle scuole, proprio in chiave anti-dispersione. A questo riguardo, la legge «L’istruzione riparte» prevede che le stesse scuole possano avvalersi della collaborazione delle associazioni di volontariato già attive nel campo dell’educazione tramite, per esempio, le attività di doposcuola. Nella stessa direzione vanno anche i nuovi fondi destinati ai corsi professionali e all’apprendistato aziendale, strade che permettono ai ragazzi di accedere al mondo del lavoro: un modo per costruirsi un percorso lavorativo, legato ad attività manuali e pratiche, che non richiede un lungo curriculum di studi.

Ma quali sono le cause di questo fenomeno? L’abbiamo chiesto al professor Piercesare Rivoltella, docente di Didattica generale dell’Università Cattolica di Milano.

Come mai la dispersione scolastica è così alta in Italia?

I dati confermano un trend che si registra nel nostro Paese ormai da molti anni. Le cause possono essere molte. Innanzitutto il problema è la didattica frontale, basata esclusivamente sulla trasmissione dei contenuti. È una metodologia molto presente nella nostra scuola. Così, anche se a livello scolastico, soprattutto superiore, i ragazzi che escono dagli istituti italiani sono i migliori in Europa, lo stresso sistema produce anche molte uscite. Anche il rapporto della Fondazione scuola della Compagnia San Paolo, circa un anno e mezzo fa, aveva indicato del resto tra le motivazioni delle difficoltà scolastiche dei ragazzi la differenza di percezione che gli studenti hanno del proprio apprendimento e l’apprezzamento degli insegnanti, e proprio la didattica.

Cosa bisognerebbe fare per migliorare la situazione?

Puntare sull’innovazione, cambiare le pratiche di insegnamento, essere attenti al mondo culturale di oggi e intercettare i bisogni che sono diversi rispetto ai ragazzi di dieci, venti o trenta anni fa. È importante focalizzarsi su nuove culture e declinazioni, sulla missione della scuola per renderla percepibile da parte dei nuovi studenti. Un esempio tra tutti è l’uso delle nuove tecnologie in classe: ancora troppo limitato.

Oggi gli insegnanti accedono alla professione per concorso e non più attraverso le Scuole di specializzazione per l’insegnamento. È una strada davvero valida?

Esistono due problemi sulla formazione degli insegnanti. Il primo è proprio quello dell’accesso alla professione. Il concorso serve a poco: misura il possesso dei contenuti. E questo è già stato fatto all’università: se c’è la laurea, c’è anche il possesso dei contenuti. L’insegnante per essere valutato idoneo alla professione deve essere invece messo alla prova sui saperi socio-psico-pedagogici e didattici, deve cioè essere capace di mediare la propria disciplina. È su questi aspetti che deve essere valutato il laureato, altrimenti sarà bravo nella propria materia, ma non saprà insegnare.

E il secondo problema?

È la formazione degli insegnanti in servizio, per meglio dire lo sviluppo professionale dei docenti. Nel nostro Paese, infatti, questa è una delle pochissime professioni che ancora non ha obbligo di formazione continua, non ci sono vincoli che obbligano a seguire corsi di aggiornamento e questi non incidono in alcun modo sulla carriera. La scuola deve curare le risorse umane, come ogni altra azienda, altrimenti è destinata al fallimento: non si può continuare così e pensare di rimanere sul mercato. Nel nostro Paese non si è mai prodotto un discorso serio sulla formazione degli insegnanti. Ci sono stati, purtroppo, molti sbarramenti di tipo sindacale nel comparto scuola, che non hanno aiutato. Eppure formare insegnati competenti è importante sia per accedere alla professione che per continuare a svolgerla.

La mancanza di prospettive lavorative può essere una causa di abbandono scolastico?

Può esserlo all’università, ma a livelli più bassi, e da noi si comincia prima della terza media, la causa non è mai la sfiducia dei genitori nella capacità della scuola di dare lavoro. Le risposte vanno cercate spesso nella famiglia, che ha un capitale socio culturale basso e non è in grado per vari disagi di seguire il figlio. Quando un ragazzo non riesce a tenere il passo viene tagliato dal sistema scolastico, nessuno si fa più carico di lui. E questa è una realtà espulsiva, non inclusiva. Chi ha un handicap certificato ha diritti, chi ha uno svantaggio sociale che non può essere attestato a livello giuridico non è tutelato: una situazione che accomuna le scuole medie con la scuola di secondo grado. Il lavoro va fatto sugli insegnanti. Il ragazzo che ha difficoltà di apprendimento non deve essere considerato una zavorra, ma una persona che ha bisogno che l’insegnante lo aiuti a trovare la strada per la riuscita. È qui che si misura la democrazia del sistema: nella capacità di garantire a tutti pari opportunità di successo, non nelle parità di accesso.

Cristina Conti



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