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Divorzio in sei mesi il disastro continuaLa prima «conquista», almeno così è stata definita in un certo ambito, è avvenuta quarant’anni fa, nel 1970, quando si è riusciti a far passare la legge sul divorzio, confermata poi con il referendum del 1974. E’ stata salutata come la legge che ci allineava con le nazioni progredite. Si usciva dal medioevo e si entrava nella modernità. Oggi il Parlamento ha perfezionato la legge: si può divorziare dopo soli sei mesi dalla separazione e non più dopo tre anni. Anche questa nuova legge è stata votata con favore dalla maggioranza dei parlamentari, e altrettanto favorevolmente diffusa dalla stampa. Finalmente si è capito, dicono, che non ha senso far attendere nel limbo affettivo delle persone che hanno già constatato e formalizzato in modo definitivo la rottura del loro rapporto. Quante sono le persone che dopo la separazione si sono ricongiunte? Pochissime. E allora perché chiedere a chi si è separato ufficialmente di attendere tre anni? Attendere che cosa? La madre di tutte le separazioni Il problema non sono i tre anni o i sei mesi. Il problema è il divorzio. Non si è ancora preso coscienza che il divorzio è in qualche modo la madre di tutte le divisioni. In che senso? Nel senso che con il divorzio si formalizza inequivocabilmente l’uccisione della prima e naturale comunità in cui si insegna e si apprende l’amore, la famiglia. E’ in famiglia che si impara ad accogliere l’altro, a rispettarlo, ad essere attenti ai suoi bisogni e a ridimensionare i nostri, a superare quell’esasperato individualismo che è all’origine di tante contrapposizioni e lacerazioni. Non c’è da illudersi: non ci sono altri luoghi che possano sostituirla. Se è vero che, come dice sant’Agostino, nessuno può amare se prima non è stato amato, minando la solidità e il valore della famiglia si distrugge il luogo dove si impara la tolleranza, la solidarietà, l’amore. L’amore non si apprende sui libri o con lezioni e conferenze, ma vivendo in un contesto di “amore” nel senso più ampio e pratico del termine. Papà e mamma che si amano sono, dice san Tommaso, il secondo utero nel quale il figlio continua a crescere in umanità. E’ il luogo della prima personalizzazione e della prima socializzazione. Per questo anni fa era stata richiesta la chiusura degli orfanotrofi e la creazione di comunità-alloggio, cioè di strutture che in qualche modo imitassero le caratteristiche della famiglia. Perdendo la famiglia si perde la prima e insostituibile “esperienza” di amore. La separazione talora è necessaria, ma… E’ vero che la conflittualità può diventare talmente alta da rendere impossibile la continuazione della convivenza. Ma allora non si dica che il divorzio è un bene, ma si abbia l’onestà di riconoscere che è un minor male, e che questo minor male non è indolore e senza conseguenze nella vita dei coniugi, dei figli e dell’intera comunità. Forse (il forse è d’obbligo) mette fine alla conflittualità, ma provoca molti altri mali. Basta guardarsi attorno e vedere quello che è avvenuto in questi quarant’anni di divorzio. Chi ha ancora il coraggio di parlare di «conquista di civiltà»? Tutte le reti di relazioni sono state compromesse. Non solo tra l’uomo e la donna, ma soprattutto tra i genitori e i figli, tra i nonni e nipoti, tra i parenti, gli amici, i colleghi e gli autori-vittime del divorzio. Si dica chiaramente che il problema non è stato risolto, perché non si risolve un problema provocandone altri e maggiori. Andropov nel 1983 aveva chiesto che nell’ex Urss di fronte al dilagare delle separazioni si promuovessero dei corsi di educazione alla coniugalità e auspicava la diffusione dei club delle giovani coppie per aiutarle a superare le difficoltà che inevitabilmente l’uomo e la donna incontrano nella loro convivenza, Da buon materialista aveva individuato nella diffusione dei conflitti coniugali e dei divorzi (pare che l’anno prima i divorzi avessero raggiunto la cifra di un milione) tre grandi mali: il dissesto dei rapporti sociali (le persone affettivamente disturbate creano disagio nella comunità), il calo demografico (le coppie non procreano quando non si sentono affettivamente sicure) e il calo nella produzione (si rende meno nel lavoro quando si è affettivamente in crisi). Non parlava di valori, ma semplicemente di conseguenze sociali negative nel singoli e nel sociale. Quello che fa la differenza Se si considera il divorzio per quello che realmente è, dobbiamo riconoscere che non è una conquista di civiltà, ma una sconfitta affettiva che genera molti mali. Allora non si esulta di fronte alla sua legalizzazione e alle facilitazioni giuridiche per ottenerlo in tempi brevi; ma la società intera si chiede cosa sia possibile fare per evitare che l’uomo e la donna cadano nella conflittualità e nella separazione. Tempo fa scrivevamo che troppo spesso ci illudiamo di risolvere i problemi non andando alla radice, ma tamponando l’emergenza. Sono “quelli del capitolo secondo”, cioè quelli che credono di liberare la persona dalle loro sofferenze togliendo la causa immediata, ma lasciando immutata la causa profonda della sofferenza. Ne facevo un lungo elenco. La coppia è in difficoltà? Diamole la possibilità di risolvere il problema col divorzio. La donna soffre per una gravidanza indesiderata? Diamole la possibilità di abortire. Le carceri sono disumane perché sovraffollate? Svuotiamole con l’indulto. Esistono case abusive? Salviamole con il condono. Si evadono la tasse portando i capitali all’estero? Facciamoli rientrare con un condono. Sono tutte soluzioni che apparentemente risolvono i problemi; ma non affrontandoli alla radice producono ingiustizia, perdita del “senso” profondo della vita umana e delle sue espressioni. Col divorzio si salvano i genitori, ma si sacrificano i figli; con l’aborto si solleva la donna dalla sofferenza, ma viene eliminato il figlio; con l’indulto si tolgono i carcerati da un trattamento inumano, ma si lasciano senza giustizia quelli che sono stati da loro danneggiati; con il condono edilizio si salvano la case, ma si danneggiano l’ambiente e gli altri cittadini; con un altro condono si fanno rientrare i capitali, ma si sente beffato chi paga regolarmente le tasse. E’ la soluzione facile di chi crede di risolvere i problemi senza rendersi conto che non li risolve, anzi ne crea altri. Chi divorzia può continuare a divorziare, chi abortisce può continuare ad abortire, chi delinque può continuare a delinquere e chi evade le tasse può continuare ad evaderle. Il problema viene risolto malamente nell’immediato, senza in realtà eliminare la radice che lo ha prodotto, anzi provocando il nascere di problemi ancor più complessi. La soluzione vera L’unica soluzione vera è quella di agire sulla persona e di aiutarla a vivere consapevolmente e responsabilmente le sua scelte. Se fa la scelta di sposarsi, deve essere cosciente di cosa comporta una vita d’amore, come pure deve esaminare se possiede la maturità e le qualità per vivere un amore totalizzante (tale è l’amore coniugale), e se intende impegnarsi a creare in sé le condizioni per viverlo, alimentarlo, difenderlo. Lo Stato cosa fa per aiutare i suoi cittadini a essere consapevoli e responsabili in questa scelta così esigente? Nulla. Si limita ad assistere al nascere della coppia senza verificare in alcun modo se le persone sono consapevoli dell’impegno che si assumono e senza proporre in alcun modo un servizio di aiuto. E quando falliscono, prende atto del loro fallimento senza proporre un cammino che permetta loro di prendere coscienza degli errori e di aiutarli a superare la sofferenza prodotte dalla fine del loro amore. Nell’incontro che papa Francesco ha avuto il giorno dell’Ascensione allo Stadio olimpico di Roma con i fedeli del Rinnovamento dello Spirito, ha chiesto di diffondere la «cultura della vicinanza». E con forza ha ribadito che le divisioni sono il frutto del demonio e che dove c’è divisione c’è satana in azione; e con altrettanta forza ha detto chiaramente che il demonio non vuole la famiglia perché è il luogo dell’unione, mentre satana persegue la politica delle divisioni. E la realizza anche attraverso il divorzio. Giordano Muraro o.p.
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